Ammanchi, tre anni al commercialista Corte: 'Bracchi sapeva'
Nella prima foto a sinistra, Bracchi nell’aula del tribunale di Cremona; in quella a destra, Lazzarinetti (a sinistra) con i suoi avvocati Lapo Pasquetti e Giovanni Benedini
“Appare francamente inconcepibile la prospettazione di un curatore fallimentare il quale, essendo a conoscenza che nell’ambito delle proprie procedure concorsuali un socio di studio pone in essere ripetutamente condotte quali quelle attribuite a Lazzarinetti, faccia finta di nulla, tacendo, e non prenda attivamente una posizione nè in un senso (dando il proprio assenso), nè nell’altro (adoperandosi attivamente per impedirle, ciò che pacificamente non è mai avvenuto)”. Per i giudici della seconda sezione della corte d’appello di Brescia, tra il commercialista cremonese Italo Bracchi e il suo socio di studio Adriano Lazzarinetti “ci fu un vero e proprio accordo”. Bracchi è stato condannato a tre anni di reclusione (attenuanti generiche, pena condonata dall’indulto) per concorso in peculato relativamente ai fatti commessi in epoca successiva al 19 marzo del 2000 per il fallimento “Bottega delle carni di Bonfanti Rinaldo” e per la liquidazione coatta amministrativa “Aipm”. Estinti per prescrizione, invece, gli altri episodi di peculato commessi tra il 3 giugno del 1996 e il 19 marzo del 2000.
Questa l’ultima sentenza pronunciata a Brescia dopo che la Cassazione aveva annullato con rinvio la condanna a quattro anni e sei mesi emessa dalla prima corte d’appello per omessa vigilanza sui fallimenti.
La vicenda risale al maggio del 2005, quando Bracchi era stato accusato di peculato in concorso con l’ex socio di studio Adriano Lazzarinetti, che a processo aveva scelto il patteggiamento a quattro anni e otto mesi, di cui tre condonati dall’indulto. Bracchi, invece, era stato condannato dal tribunale di Cremona il 3 dicembre del 2008 a cinque anni di reclusione. Maestro e allievo erano accusati di aver sottratto, dal 1995 al 2005, 2,5 milioni di euro da 20 procedure fallimentari, più un concordato preventivo e due liquidazioni coatte amministrative, confezionando falsi atti giudiziari. Successivamente la corte d’appello di Brescia aveva dichiarato il “non doversi procedere” nei confronti del commercialista per i reati di peculato successivi al 3 giugno del 1996 fino al 29 dicembre del 2007, in quanto prescritti. A Bracchi era stato riconosciuto un “concorso omissivo”, e non un “contributo materiale”. Quale curatore, “aveva il dovere legale di attivarsi per evitare la consumazione di reati aventi ad oggetto il patrimonio di cui si ha l’amministrazione o la vigilanza”. Invece “non impedì il compimento materiale delle appropriazioni ad opera di Adriano Lazzarinetti”.
Parere diverso è stato emesso dalla seconda sezione dell’appello di Brescia, secondo cui tra i due soci ci fu “un vero e proprio accordo”. Il commercialista sapeva delle appropriazioni. Come si legge nelle 54 pagine di motivazione della sentenza, le condotte di Bracchi sono “connotate da una pregnanza macroscopica (tenuto conto anche del fatto che si sta parlando di un esperto professionista e non di un soggetto estraneo alle pratiche concorsuali inopinatamente incaricato di gestirle) laddove i rilievi difensivi si palesano deboli e incapaci di contrastare seriamente quel quadro”. “Come può credersi, ad esempio”, si chiedono i giudici, “che Bracchi non si fosse mai avveduto, esaminando i blocchetti degli assegni o quantomeno gli estratti conto che periodicamente pervenivano dalla banca, dei titoli emessi senza autorizzazione nell’ambito della liquidazione coatta Aipm (Associazione interprovinciale produttori maisicoli) con i quali era stata progressivamente distratta la somma complessiva di 582.171.461 di lire”. “Quanto al fatto”, si legge, “che era stato lo stesso Bracchi a richiedere il fallimento della società, appare significativo che poco prima della trasformazione vi erano stati copiosi versamenti di somme provenienti da altre procedure diretti a ripianare l’ammanco”. “Di particolare pregnanza”, inoltre, “appare il fatto che la somma di 30 milioni proveniente dalla chiusura del libretto postale nell’ambito del fallimento Bonfanti (e sparita, in quanto mai versata sul libretto della procedura) era stata ritirata personalmente da Bracchi, come lo stesso aveva ammesso, senza però fornire una precisa indicazione sulla sua sorte”. Secondo i giudici, insomma, “le appropriazioni erano perfettamente conosciute ed approvate da Bracchi”.
Sara Pizzorni
© RIPRODUZIONE RISERVATA