Ucraina-Russia, un mese di guerra: i 10 errori di Mosca
(Adnkronos) – Anche se le morsa delle forze russe continua a stringere molte delle principali città ucraine, allo scoccare del primo mese di conflitto nessuno, neanche a Mosca, può ammettere che le cose siano andate come Vladimir Putin immaginava, lanciando l’ ‘operazione speciale’ contro Kiev, all’alba del 24 febbraio. Poche ore di avanzata quasi indisturbata, poi la macchina bellica russa – apparentemente inarrestabile – si è fermata e da allora, sul terreno come nei cieli e sui mari, i progressi sono stati limitati.
Un mese di guerra – Lo speciale
E Mosca è passata dall’obiettivo di sconfiggere le forze armate di Kiev a una offensiva di artiglieria volta a terrorizzare e demoralizzare i civili. Anche qui, con poco successo, nonostante i massacri. Alla base di questa situazione (inimmaginabile in partenza, vista la disparità di mezzi in campo) una serie di analisi affrettate, di errori tattici e di gravi sottovalutazioni. Ecco il ‘decalogo’ dei principali errori di Mosca:
– Mancato supporto dell’opinione pubblica: In teoria una fetta consistente della popolazione ucraina, quella di lingua e cultura russa, avrebbe dovuto salutare i tank di Mosca come forza di ‘liberazione’. I rapporti forniti dall’intelligence – spiega una talpa dei servizi di sicurezza (Fsb) – infatti avrebbero detto a Putin che almeno 2 mila civili armati erano pronti a scendere in piazza in ognuna delle principali città ucraine per abbattere Zelensky mentre altri 5 mila sarebbero scesi in piazza per manifestare a favore di Mosca. Mai visti, anzi, la violenza e la brutalità dell’operazione hanno sconvolto anche la minoranza russofona che ha preso le distanze dall’invasione. ‘Not in my name’, come si diceva un tempo.
– Scomparsa politici filorussi: “All’Fsb ci aspettavamo di diventare gli arbitri che avrebbero incoronato i politici ucraini che si sarebbero battuti” per diventare i governanti scelti da Mosca, scrive la stessa fonte dell’Fsb: “avevamo persino definito i criteri per eleggere i migliori” e invece “siamo allo 0%” di realizzazione di quel piano. Anche qui in teoria nel panorama politico di Kiev si contavano almeno undici partiti ‘vicini alla Russia’. Subito dopo l’attacco il presidente Zelensky ne ha sospeso l’attività mentre il leader del più grande, ‘Piattaforma di Opposizione – Per la Vita’ (con 43 parlamentari su 450 totali della Rada) , l’oligarca filorusso Viktor Medvedchuk, amico personale di Putin, è fuggito facendo perdere le sue tracce. Difficile pensare a lui come a un Quisling di Kiev.
– Divisioni fra i servizi: E’ evidente che Vladimir Putin ha scatenato l’invasione basandosi su informazioni errate, incomplete o eccessivamente ottimistiche. Nel silenzio che circonda il Cremlino si è comunque aperta la caccia al colpevole, complicata dalla moltiplicazione dei servizi di sicurezza e intelligence.
E le prime teste hanno incominciato a cadere: il vice comandante della Guardia nazionale in Russia (Rosgvardia) il generale Roman Gavrilov, sarebbe stato arrestato dall’Fsb, a sua volta colpito dal possibile arresto del generale Sergei Beseda, che guidava il direttorato per l’intelligence estera, e del suo vice, Anatoly Bolukh, a opera dell’Fso, l’agenzia incaricata della protezione diretta del presidente russo. “Va di moda accusarci di tutto” ha spiegato la talpa dellFsb, riconoscendo tuttavia che alcuni rapporti sono stati palesemente esagerati per non deludere i superiori.
– Zelensky: Fra gli errori politici più gravi commessi da Mosca, la convinzione che un uomo di spettacolo (un ‘comico’, si spiega con disprezzo) davanti ai carri russi non avrebbe esitato a fuggire lasciando a Kiev un vuoto istituzionale che i filo-russi avrebbero subito riempito. Invece Zelensky non solo non ha mai lasciato la capitale, ma da conoscitore dell’importanza dello ‘spettacolo’ ha occupato la scena dell’invasione prima mostrandosi come un combattente vicino al sacrificio supremo (“Forse è l’ultima volta che mi vedete vivo” disse in un videocollegamento), quindi via via come un leader internazionale impegnato in un flusso continuo di contatti e consultazioni.
Tweet a getto continuo per ringraziare tutti i paesi ‘vicini’, video a ogni ora del giorno e della notte, interventi quotidiani nei principali parlamenti mondiali, riprese improvvisate dal centro di Kiev per dimostrare che il presidente è al suo posto e lavora per il paese. E poi la divisa d’ordinanza, con t-shirt e giubbotto mimetici, che gli è valsa anche qualche critica per ‘mancanza di rispetto’. Ma soprattutto, Zelensky – sopravvissuto a diversi tentativi di omicidio in queste quattro settimane – non ha sbagliato le mosse diplomatiche, toccando le corde giuste dell’Occidente e lanciando a Putin messaggi di disponibilità a un accordo (inclusa la rinuncia all’adesione alla Nato e forse la ‘concessione’ della Crimea), parlando non da leader nell’angolo bensì da interlocutore alla pari. E comunque vada, per il presidente russo sarebbe una sconfitta.
– Comunicazione: Oggi, per non dare informazioni preziose al nemico, la censura si è in parte abbattuta sulle comunicazioni – anche private – degli ucraini. Ma nei primi giorni il mondo ha potuto assistere in diretta, in forma mai vista, a una informazione totale su un conflitto in corso. Social, video, servizi tv, nulla è stato taciuto, dagli ucraini come dai giornalisti stranieri presenti. Ogni aereo abbattuto è stato documentato, riscaldando il cuore degli ucraini, ogni prigioniero è stato mostrato nella sua debolezza. Poche ore dopo l’invasione Kiev ha aperto un sito dedicato alle mamme russe, con tanto di foto e video dei figli catturati o dei loro cadaveri. Evidente il tentativo di far salire il livello di opposizione interna all’Operazione Speciale.
E poi ancora chiamate a casa dei prigionieri, esposti nella loro fragilità. Anche molta disinformazione e propaganda, normali in guerra. Ancora una volta è l’Fsb a sintetizzare al meglio la situazione: gli ucraini “sono stati incommensurabilmente migliori” dei russi nella ‘guerra di informazioni’ sia perché a Mosca regnava “la segretezza” sull’attacco sia perché all’inizio Mosca voleva soprattutto convincere Kiev “a smettere di resistere”. Il risultato – si evidenzia da Mosca – è che “abbiamo subìto un dominio totale della comunicazione ‘esterna’: sul piano dell’informazione nei primi giorni è stata una sconfitta totale” per la Russia. Kiev creava leggende e dava comunicazioni “abbastanza reali dal campo di battaglia, mentre noi non abbiamo trasmesso questo tipo di informazioni: è qui che la lezione degli americani sembra aver dato i risultati maggiori”.
– Qualità armamenti: Non è solo una questione di numeri. L’elenco dei tank distrutti, dei blindati andati a fuoco, degli aerei e degli elicotteri abbattuti è impressionante, anche solo a dare retta a osservatori indipendenti. Ma quello che impressiona è la facilità con cui i mezzi russi vengono identificati e distrutti e la scarsa qualità delle attrezzature: in alcuni video militari ucraini osservano con un certo stupore che i carri armati di Mosca sono “persino più vecchi” dei loro.
I droni turchi centrano i loro bersagli senza troppi problemi mentre i Javelin fanno strage di Mig. Secondo una contabilità indipendente, tempo pochi giorni e Mosca (già a corto di uomini) si troverà in riserva con munizioni, carburante e altri sistemi logistici. E’ chiaro che si contava su una blitzkrieg, per una guerra di posizione serviva una diversa preparazione, e forse ora è troppo tardi.
– Catena di comando: Un dato macabro rende l’idea: a oggi sono almeno cinque i generali russi uccisi dall’inizio dell’invasione più un numero indefinito (ma elevato) di alti ufficiali. Nelle ultime guerre, dalla seconda metà del Novecento in poi, non si erano mai registrate perdite così alte a questi livelli (neppure per gli americani in tanti anni di Vietnam). Segno che per gestire una operazione così complessa i vertici militari russi sono dovuti andare in prima fila, rischiando la vita. E’ il simbolo di una catena di comando incerta e soggetta a ‘interruzioni’: in una parola, impreparazione.
E per ogni ufficiale ucciso, c’è un’offensiva che si arresta, un reparto che si trova allo sbando, in un esercito dal morale già basso e fiaccato dalle perdite. Sul fronte opposto, le perdite sono minori, e la distanza fra stato maggiore e truppe sul campo è assai più ridotta (anche in termini geografici). Se si aggiunge la motivazione di un esercito che difende la sua terra, ed è pronto a trasformare ogni strada – di un paese enorme, peraltro – in un campo di battaglia, la risultante è una offensiva che si è fermata con gli attaccanti che potrebbero essere presto costretti a difendersi o ad arretrare. Comunque vada, l’immagine delle forze armate russe ne resterà macchiata per decenni.
– L’Occidente: Con la Nato impossibilitata a intervenire, il rischio era che l’Occidente avrebbe semplicemente alzato una cortina di parole, senza trasformare le dichiarazioni in atti concreti. Invece, dopo avere assistito quasi in maniera inerte alle ‘altre guerre’ di Putin, questa volta Stati Uniti, Europa, Giappone, e persino la neutrale Svizzera hanno trovato una voce sola di condanna. E soprattutto hanno agito con rapidità e durezza: non c’è la no fly zone invocata da Zelensky, ma le armi silenziosamente affluiscono in direzione di Kiev, le sanzioni sono inaudite per dimensioni ed efficacia, mentre l’isolamento ‘fisico’ della Russia (sul versante occidentale, almeno) è pressoché totale.
Segno che in molti hanno compreso che lo scontro andava al di là della dimensione ucraina ma poteva essere – se non fermato in tempo – il preludio di nuove più laceranti battaglie. Certo, il gas russo continua ad affluire in direzione dell’Europa, ma a Bruxelles è emersa la consapevolezza che non si può più dipendere da un dittatore per la propria energia. Tempo qualche anno e le forniture di Mosca non saranno così importanti. Per il momento, anche l’Occidente paga un prezzo pesante, in termini di costi energetici, mancati commerci e inflazione. Se la crisi non dovesse durare troppo a lungo, sarebbe una cicatrice destinata a non lasciare traccia. Anche qui, il fattore tempo è cruciale.
– Bielorussia, Siria, Cecenia: In queste settimane si sono rincorse in continuazione voci di contributi militari – sempre più necessari – da parte degli ‘amici di Putin’: dal presidente bielorusso Lukashenko al siriano Assad, passando per il leader ceceno Kadyrov. La realtà è che Minsk appare riluttante (per non minare i propri equilibri interni), Damasco non riesce a mobilitare che manipoli di volontari – sospettati anche di voler solo provare a emigrare in Europa – e i temibili miliziani inviati da Grozny hanno già subito fortissime perdite, nonostante la retorica jihadista.
Insomma, sul campo, la Russia è sola e non si vedono grosse novità all’orizzonte. Può contare solo sui suoi soldati (male armati, depressi, costretti a saccheggiare le abitazioni in cerca di cibo) ma soprattutto sul suo arsenale nucleare. Nel suo delirio, suggeriscono gli stessi servizi russi, Putin potrebbe essere tentato di dare una dimostrazione con un attacco su scala ‘locale’ – si fa per dire – magari in aree disabitate. Ma per il presidente russo vorrebbe dire scendere nel ‘bunker della Cancelleria’. Dal quale, come la Storia insegna, non si esce vivi.