Unabomber, Zornitta: “Io scagionato dopo 5 anni da incubo, né risarcimenti né scuse”
(Adnkronos) – “Di quegli anni ricordo la paura, l’incubo, sempre lo stesso. Sognavo di restare intrappolato nel caos degli sguardi inquisitori, delle accuse infamanti, della menzogna, degli amici ormai di spalle. Nel baratro di un lavoro ottenuto con sacrificio e pazienza e perso in età ormai non più giovane. Sognavo, nell’angoscia della reputazione distrutta. Ho pensato al suicidio, certo, a un certo punto ho creduto che fosse quello l’unico modo di aprire gli occhi e svegliarmi in un’altra realtà, quella che mi era stata strappata via all’improvviso. Senza alcun motivo”. E’ il racconto che Elvo Zornitta, l’ingegnere ingiustamente accusato di essere l’Unabomber italiano, fa all’Adnkronos. Sessantacinque anni, cinque dei quali – dal 2004 al 2009 – vissuti ingiustamente da ‘Unambomber’, si è salvato grazie alla moglie e alla figlia che hanno sempre creduto in lui.
Alla sua casa di Azzano Decimo, a Pordenone, non è mai andato nessuno a bussare, a chiedere scusa. Nemmeno Ezio Zernar, l’agente della Scientifica condannato in via definitiva con l’accusa di aver truccato la prova regina contro Zornitta, manomettendo parte di un oggetto trovato inesploso con una forbice sequestrata dalla sua abitazione.
Ma perché un uomo dello Stato, allora poliziotto della Scientifica impegnato nelle indagini, avrebbe scelto di gettarlo in quell’incubo? “Un po’ per garantire a qualsiasi costo un colpevole, e rispondere così alla sete di giustizia della gente. Ricordo la pressione mediatica che mi asfissiava – risponde Zornitta – Ma poi, soprattutto, immagino, per il desiderio di emergere e di acquisire prestigio agli occhi di tutti, riuscendo a risolvere un caso che aveva generato tanto clamore, incrementando in tal modo in maniera considerevole la propria possibilità di carriera”.
Da ingegnere di un paesino tranquillo del Nord Est, Zornitta allora 47enne, si ritrovò ad affrontare nell’ordine sospetti, perquisizioni, domande, minacce, insulti, processi, sentenze. “E’ difficile poter immaginare come si senta una persona innocente, che mai aveva avuto problemi giudiziari, a dover affrontare un’accusa tanto infamante, riconosciuto e additato da tutti, senza nessuna possibilità di difendersi – dice – Quando il mondo, che con tanta difficoltà ti sei creato, ti crolla letteralmente addosso, quando la stima che ti sei costruito con il lavoro e la pazienza viene sommersa e disintegrata da insistenti e ignobili accuse, ti senti veramente perso e incapace di continuare a vivere. Ho avuto paura, paura di non potermi difendere, paura di dovermi confrontare con un sistema che congiurava contro di me, che dopo anni di sorveglianza senza risultati continuava a credere nella mia colpevolezza. Ho pensato di farla finita. Ma avevo una moglie e dei genitori che per fortuna continuavano a credere in me e soprattutto una bambina che non potevo certamente abbandonare”.
Per la mala giustizia che lo ha sbattuto alla gogna, Elvo Zornitta ha chiesto allo Stato un risarcimento che mai è arrivato. “Nessuna cifra potrà mai ridarmi i lunghi anni passati nel terrore o togliermi dalla mente le ansie vissute in quei momenti – continua all’Adnkronos – Ancora oggi, come per anni, ne porto e ne ho portato i segni, non riuscendo ad addormentarmi la notte e vivendo continuamente lo stesso incubo, primo pensiero del mattino ed ultimo della sera. Nonostante questo, non ho ancora ricevuto alcun risarcimento, salvo poche decine di euro pignorati a Zernar, nemmeno sufficienti a pagare quanto è stato fatto dai miei avvocati e dalle persone che hanno collaborato alla risoluzione di questo caso. Le scuse? Inutile dire che nessuno si è mai scusato per quanto mi è stato fatto”.
In tredici anni di riguadagnata libertà, ha più rivisto il suo accusatore? “Mai più, ad eccezione di quando ormai molto tempo fa, l’ho incontrato in tribunale. Non ho il desiderio di rivederlo, anche perché – aggiunge Zornitta – non so quale potrebbe essere la mia reazione”.
E oggi? “Rimettere a posto i pezzi di una vita distrutta non è così facile, vero è che non sono ancora riuscito a farlo. Certamente i momenti più critici sono passati, ma essere considerato per mesi un criminale, perdere il lavoro che ti piace nel momento più critico per l’età non più giovanissima, essere abbandonato da gran parte dei conoscenti e degli amici – conclude – ti fa capire come tutto sia così effimero e non aiuta certamente a continuare a credere in quei valori profondi con i quali sei cresciuto. Dicono che il tempo sia il miglior rimedio, ma io sto ancora aspettando”. (di Silvia Mancinelli)