Cronaca

Quella musica antica del Festival Monteverdi pervasa di humus tragico

Sopra, Andrea Lucchesini

A tre giorni di chiusura dall’intenso Festival Monteverdi, Cremona era già di nuovo in fibrillazione, con il centro rutilante di gente intenta ad acchiappare qua e là la giostra di eventi che hanno caratterizzato il terzo cartellone de “Le corde dell’anima”, felice scommessa in cui musica e letteratura vanno a braccetto, il più delle volte sfuggendo alla banalità dell’ovvio. Miracoli di una placida provincia in cui l’elogio della lentezza si sposa con una solida progettualità che non si spegne, nemmeno quando è la vita a farlo; lo scorso 4 febbraio, se ne andava Arnaldo Bassini, instancabile direttore artistico del Teatro Ponchielli e artefice di tante occasioni di ascolto concepite non come pur amene evasioni dalla vita ma come imprescindibili rimandi della vita stessa. Su tutte, spiccava la “riscoperta” del prediletto Monteverdi, alla cui promozione il giornalista e critico cremonese votava quell’impegno totalizzante che si dedica alle missioni. Era ancora una volta sua la firma di questa ventinovesima galleria di appuntamenti con la musica antica del Festival che, per più di un mese (dal 27 aprile al 29 maggio), si sono inanellati allo stesso filo conduttore, quest’anno profeticamente pervaso di humus tragico; ed è a lui che questa edizione è stata dedicata, in omaggio a quel magistero che non si compra e che non ritorna.
A spiccare era su tutti la rivelazione assoluta offerta, nella preziosa cornice di S. Marcellino, dall’ensemble Gallicantus diretto da Gabriel Crouch: cinque voci di aurorale trasparenza in cui la carnale morbidezza pareva svaporare nell’impalpabile astrazione. L’ordito sgorgava dalla Missa scaturita dal mottetto “Mort d’a privé” di Thomas Crecquillon e pareva idealmente ammiccare, su tracciato liturgico, ad una più ampia riflessione sulla morte: quella di Gille de Binchois, quasi tattile nel suo rassegnato dolore scolpito dal macramé polifonico di Ockeghem; quella dello stesso Ockeghem, dipinta dal divino Desprez con la parola affondata nel tessuto contrappuntistico a rivelare l’essenza ancora inesplorata dell’umano affetto; quella di Desprez, firmata con mano commossa dall’allievo  Benedict Appenzeller. Occorrerebbe dire di ognuno, a partire dallo straordinario David Allsopp, controtenore magnetico di voce e di fraseggio, per poter restituire l’intensità, la devozione, l’adesione ad ogni singola trama di frase di questo autentico quintetto di solisti, ben più convincente dei più noti Tallis Scholars, ascoltati qualche sera prima in un programma a découpage, tra Gabrieli e Palestrina, eseguito con il bel contributo del coro “Costanzo Porta” .
E sontuoso, in due serate concepite come un’unica totalizzante traversata degna di un odierno Odisseo, era l’abbraccio di Enrico Dindo al periplo delle sei Suites per violoncello solo di Bach, rievocate in un Ponchielli stregato dal legno del suo settecentesco Rogeri. Un mese prima, a Parma, era stato il grande Misha Maisky a dispensare un ennesimo sguardo sull’inesauribile luce delle Suites: verde la terza, rossa la seconda, argento la sesta, dove il colore delle camicie di scena indossate dall’interprete invitava l’ascoltatore a stanare, in quel diamante perfetto e geloso dei suoi eterni enigmi, le sinestesie di un rimbaudiano gioco di corrispondenze tra sensi. Introdotto dalla dotta cornice di Oreste Bossini, il Bach di Dindo appariva sin dal sipario dei Preludi capace di affacciarsi sul labirintico dentro come di esporsi pericolosamente sul fuori, sulla platea zitta come di fronte ad un’eclissi; meno terreo del vigoroso Maisky, verrebbe da dire meno genialmente materico, ma certamente con il velluto seduttivo dell’insinuazione, del sottaciuto che il rabdomante ama risvegliare dal lungo sonno. Un Bach più di ombre che di granitiche certezze, di fraseggi come rovelli, mosso nelle increspature di un dialogo con il silenzio che diventa leopardiano smarrimento nell’infinito soliloquio. Della saturnina seconda Suite in re minore, svettava seriosa l’Allemanda, prima di cedere il passo al legato iperplastico dell’elettrica Corrente e, da lì, al turbamento sottile della desolata Sarabanda. Violoncello di Dioniso, quello di Dindo, cinetico senza nevrosi, così sorvegliato nel controllo dei volumi di suono da farsi parlante; una concezione che, come lo stesso interprete aveva suggerito nell’introduzione, siede sull’antico delle copie di Anna Magdalena. Sulla loro nuda pietra rarefatta, l’esecutore di oggi tende la mano al Cantor. Quarta creatura, di mezzo tra la primaverile poesia delle prime e l’imponente astrazione delle estreme, la Suite in Mi bemolle maggiore prendeva sotto l’archetto di Dindo le fattezze mercuriali, cangianti, della sirena che un po’ si offre e molto si nega.
Già metafisico suonava il Preludio, nel respiro degli intervalli che dilatano gli arpeggi spezzati come squarci; e acquatica, di un’acqua sempre più torbida e sanguigna, era l’Allemanda, nelle cui vene già scorreva il passo impettito e fiero che si sarebbe ritrovato, di lì a poco, nella Bourrée I e II. Galassie sonore, microcosmi  di sterminata profondità concepiti come rispettivi Gradus verso un Parnassum dell’anima, oltre che della strumentalità. Palestra per lo spirito, certo, allenato all’esatto responso di numeri che regola l’armonia dei suoni così come del mondo, ma anche palestra per le dita, con il progressivo stratificarsi di difficoltà e diavolerie tecniche man mano si procede verso l’approdo ultimo, quello con la parete di roccia viva della Sesta. Se infatti la criptica Quinta Suite aveva congedato la prima serata nelle tinte scure del suo Do minore stese a pennellate sulla sequenza di danze,  era il trionfante Re maggiore dell’ultima consorella a suggellare la chiusura del cerchio: la Sesta, scritta per uno strumento a cinque corde anziché per il tradizionale cello a quattro, il che sta a significare una complessità estrema per l’esecutore, alle prese con un’autentica apoteosi di ogni possibile artificio.
Dopo il volo del Preludio, il suono di Dindo scaturiva etereo, speculativo, attinto ad una invisibile corda immaginaria che pareva materializzarsi nell’intreccio di quella polifonia mancata, intimo e lucente come il Sepolcro vuoto dopo il terzo giorno; così le Gavotte, cifra distintiva della Sesta, brillavano dopo la pensosa Sarabanda in cui i pianissimo disegnavano spazi sconfinati, tutte in chiaro, presaghe del trionfo elevato dalla Giga. Generoso, infaticabile Dindo; dopo la scalata alle vette dell’ultima Suite, di fronte ad una platea che proprio non ci stava a farlo andare, ha di nuovo attaccato il sorgivo Preludio della Prima, in Sol maggiore, con cui la due giorni bachiana si era aperta 24 ore prima. “Dopo aver suonato queste note, non è possibile aggiungere altro. Non c’è musica oltre a questa. L’unica via possibile è allora quella di ricominciare”. Indimenticabile.
E altrettanto indimenticabile è stata la performance da Dea di Anna Caterina Antonacci nello spettacolo “Era la notte”, allestito da Juliette Deschamps. Sorretta dalla complicità dell’Accademia degli Astrusi, in un fondale tutto ceri ardenti e ombre notturne, la Antonacci ha consumato in oltre un’ora di infaticabile monologo il suo tributo alla solitudine, al delirio, al furore della pazzia e della morte. Pazzia sfogliata come petali di una rosa, esplorata con lo scavo nella verità della parola, nelle pieghe del dire e del tacere, nella forza scenica che è solo dei grandi. Il Lamento della pazza di Pietro Antonio Giramo e la sensuale disperazione della protagonista aprivano il sipario su questo teatro di dolore che percorreva, come una terrena Via Crucis, le stazioni di un lento precipizio verso le ombre sempre più lunghe del dramma, lambendo l’immancabile pelago del sublime Lamento di Arianna monteverdiano, quel “Lasciatemi morir” che la Antonacci dipingeva con statuaria bellezza di voce e di figura. Le pennellate di colore si facevano qui più grumose, più tragiche, già affacciate sull’epico, grandioso affresco dedicato al Combattimento di Tancredi e Clorinda che Monteverdi attinge dal XII Canto della “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso, in cui la Antonacci, immensa, era l’io e il suo doppio, io narrante e narratore esterno della vicenda, commovente nell’aristocratica sincerità degli accenti, nella nobiltà senza tempo dei fraseggi. Una drammaturgia accesa dalla sola voce, perfettamente a suo agio nelle nobili volute, nei tremoli, nei sussulti di una scrittura che è già psicologica negli indugi, onomatopeica negli effetti orchestrali tutti scrosci e guizzi. Su questa storia di amore e di morte, sui versi finali  pronunciati dalla morente Clorinda “S’apre il ciel: io vado in pace”, scendeva – definitiva e catartica – la pioggia. La fiamma si faceva fumo. Dopo tanto dire, anche la musica taceva, in una suggestione che la platea ha esitato lunghi secondi prima di rompere in un diluvio, questa volta vitalissimo, di applausi. Lo scorso 29 maggio, il Festival si chiudeva trionfalmente sulle note della Petite Messe Solennelle di Rossini, fiore di una privata devozione annaffiata di gaudente laicità, eseguita dal Coro dell’Accademia di S. Cecilia e diretta da Andrea Lucchesini.

Elide Bergamaschi

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