Maltrattamenti alla moglie, assolto. Difesa: 'Questo caso sia da monito agli inquirenti'
Ha sempre negato con forza di aver mai alzato le mani sulla moglie, e il giudice gli ha creduto. E’ stato assolto Alassane, il papà senegalese di 49 anni che nel 2017 si era visto togliere i tre figli di 8, 10 e 14 anni perchè la moglie, una connazionale di 33 anni, lo aveva accusato di averla maltrattata. Per l’imputato, difeso dall’avvocato Paolo Carletti, il pm aveva chiesto la condanna a due anni di reclusione. La motivazione sarà depositata entro 60 giorni.
In aula l’uomo, da vent’anni in Italia, senza precedenti, con un lavoro in un’azienda del cremonese, aveva ammesso solo i litigi, ma perchè lei non lo considerava ‘sufficientemente islamico’. Secondo il senegalese, la moglie sarebbe diventata una musulmana radicalizzata: avrebbe indossato il velo e avrebbe ascoltato su Internet le prediche di un imam francese, costringendo il marito a farsi crescere la barba e obbligando i figli ad ascoltare solo la musica che diceva lei, proibendo a tutti di ascoltare la radio o di vedere la televisione.
Nel procedimento, la moglie dell’imputato, insieme ai tre figli, era parte civile attraverso il legale Massimiliano Cortellazzi. Nella denuncia sporta il 18 maggio del 2017 la donna aveva fatto mettere a verbale che sin dalla nascita del loro primo figlio aveva scoperto che il marito rappresentava “un gravissimo pericolo” per la sua integrità psico fisica e per quella dei figli, raccontando di rapporti sessuali violenti e di continui maltrattamenti anche in presenza dei bambini. “Ero obbligata a vedere in televisione le prediche dell’imam perché dovevo cambiare la mia testa italiana”, aveva detto lei il 9 gennaio scorso durante il processo. “Secondo lui non mi vestivo in modo consono, mi dava della puttana. Io sono musulmana, prego, ma la mia voglia di lavorare e di essere indipendente ha sempre vinto”.
Nell’ottobre del 2017 davanti al tribunale dei minorenni si era svolta un’udienza durante la quale il giudice aveva sentito il figlio maggiore, la madre e la relazione dei servizi sociali. A fine febbraio dell’anno successivo in cancelleria era stato depositato il provvedimento che dichiarava la decadenza dalla potestà genitoriale del padre.
“Prendere per i capelli un innocente e strapparlo dall’inferno dà forti emozioni ed è sempre una enorme soddisfazione che ci insegna il valore dell’avvocatura”, è il commento dell’avvocato Carletti. “Inquirenti e procura hanno preso una cantonata che al mio assistito poteva costare cara, ma l’istruttoria dibattimentale ha sgretolato l’impianto accusatorio che si basava sulla querela della parte offesa, querela ben fatta e ben circostanziata che però non ha trovato lo straccio di una conferma esterna ad essa. La signora basava le sue accuse su quattro accessi al pronto soccorso per cefalea, a suo dire originata dal fatto che il marito la scaraventasse abitualmente con la testa contro le pareti di casa, ma nessun medico ha mai ritenuto che quella cefalea potesse essere di origine traumatica. Due volte gli agenti di polizia giudiziaria hanno fatto accesso all’abitazione familiare senza stilare nemmeno una relazione, tanto era irrisoria la situazione. Condannare il mio cliente significava dare del criminale ad una decina di pubblici ufficiali tra medici di pronto soccorso e agenti che mai hanno fatto cenno al sospetto di violenze, per omissione d’atti d’ufficio. Questo non è stato un processo qualunque. Il fenomeno della violenza di genere e della violenza domestica è una piaga che la nostra società deve combattere con ogni arma, e in questa situazione distinguere un innocente non è certo semplice. Che questo caso sia da monito agli inquirenti ai quali si chiede davvero un lavoro rigoroso e senza pregiudizi. Ora ricorreremo al tribunale dei minori di Brescia perchè venga restituita al mio assistito la potestà genitoriale sui figli, i quali comunque, in questi due anni, non hanno smesso di sentire e vedere il loro papà”.
“E’ meglio avere un colpevole in libertà che un innocente in carcere”, ha commentato a sua volta l’avvocato Cortellazzi. “Il principio ‘in dubio pro reo’ è di grandissima civiltà, e il giudice che lo osserva è un grande giudice, quello che ci si augura di incontrare in un tribunale. Fatima e i suoi bambini sanno come si comportava con loro il padre, ed ora, comunque, lontani da lui, vivono sicuri e sereni”.
Sara Pizzorni