Cronaca

Coronavirus, testimonianze dalla prima linea: i racconti di alcuni infermieri di Cr

Testimonianze toccanti, gonfie di dolore, quelle di alcuni infermieri che in questi mesi di pandemia hanno vissuto in prima persona il dramma e l’orrore di una situazione che sembrava sfuggire di mano giorno dopo giorno. A raccogliere le loro voci Marta Gradisi, 30 anni, fotografa amatoriale cremonese che lavora nel mondo della moda e che ha voluto celebrare in qualche modo la sua città. “Si tratta di un progetto per consentire a chi è stato in prima linea nella lotta al Covid di esprimere le proprie emozioni” racconta. “Ai protagonisti ho fatto dei ritratti fotografici in bianco e nero, poi li ho montati insieme alle testimonianze video. Mi sembrava bello lasciare loro uno spazio in cui raccontarsi”.

Racconti con le voci rotte, con i respiri corti dall’emozione. Come quello di Valentina, che il 21 febbraio, quando è scoppiato il pandemonio, era in turno di notte: “E’ stata un’esperienza tosta, che ci ha lasciato un forte impatto emotivo” racconta. Anche perché ogni volta che si entrava “in trincea” c’era il timore di venire contagiati, ma soprattutto “la paura di portare a casa il virus, alle nostre famiglie”.

C’è quello di Michela, rimasta colpita dal doversi approcciare al dolore “in pazienti che soffrivano la solitudine. Non avere il contatto fisico è stata per loro la cosa più difficile di tutte”. Sapere che forse da quelle corsie non si sarebbe mai usciti, e che si sarebbe morti senza più rivedere i propri cari.

“Ne abbiamo viste di ogni, ci siamo inventati qualsiasi cosa per cercare di salvare più persone possibili” aggiunge Giovanni. “Qualcuno si è salvato, altri purtroppo non ce l’hanno fatta”. Un dramma che “Se non lo si vive da vicino, spiegarlo è impossibile”. Ma anche il conforto del gruppo, “dell’aver lavorato insieme”.

C’è poi Debora, infermiera di San Camillo, che ha vissuto l’esperienza covid come paziente. “In quei giorni ho avuto tanti pensieri: se fossi mancata, se fossi rimasta in vita con menomazioni, cosa avrei fatto se fossi tornata a casa”. Per lei, malata, è stato ancora più forte il dramma di essere impotente di fronte al virus: ” Ho visto morire delle persone nella mia stanza e avrei voluto poter essere per loro infermiera anziché paziente. Invece li ho assistiti stando nel mio letto, da cui non potevo muovermi, sorvegliando i loro monitor e vegliando su di loro negli ultimi momenti di vita”.

“Di quei momenti ricordo le decine di persone che arrivavano ogni giorno e vedevi subito che non stavano bene” ricorda Barbara, a cui un episodio in particolare è rimasto impresso nella memoria. “Un giorno avevo chiamato in reparto per avere notizie su un paziente che era passato al pronto soccorso e mi avevano detto che era stabile. Scesi così in reparto nel pomeriggio perché volevo metterlo in contatto col figlio, in videochiamata. Ma quando arrivai mi dissero che era in fin di vita. Entrai nella sua stanza, lo accarezzai e gli sussurrai che non era solo e che i suoi parenti gli volevano bene. Forse furono le ultime parole che sentì”.

Ma non manca un risvolto positivo in un contesto così drammatico: “il forte legame che si è creato tra noi colleghi e i tanti messaggi di incoraggiamento che ci hanno dato la forza di continuare e di non mollare” continua Barbara. Sebbene certe cose viste, certi momenti trascorsi, rimarranno indelebili nell’anima di tutti coloro che l’hanno vissuta. Come Sophia, che ancora adesso la notte non dorme e trascorre notti popolate da incubi: “Ho trascorso diverse  notti in bianco o sognando di essere al lavoro, sentendo il rumore incessante delle macchine dell’ossigeno e dei campanelli che suonavano”.

LaBos

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