Cultura

Il boom delle osterie a inizio
Novecento: da 173 a 234 in 20 anni

di Fabrizio Superti

“Ragazza ballata farfalla bruciata. Quale bravo giovine sposerebbe mai una ragazza ballata?” Così esprimeva il suo disappunto mons. Antonio Avosani, parroco di Persico, in merito a quella che riteneva una pericolosa deriva nei costumi che si andava sempre più diffondendo all’inizio del Novecento. ù

Dal suo piccolo osservatorio di paese suburbano osservava, suo malgrado, il proliferare di nuove osterie e della invalsa pratica di tenervi spettacoli danzanti ritenuti fortemente lesivi per la morale pubblica.
In una corrispondenza inviata ad un sacerdote di Cremona nel dicembre del 1913 annotava amaramente come “la Vergine voglia bene a questo paese! Se si fosse fermato le avrei parlato del gran male che procura a Persichello il ballo nell’osteria di Bandera, sopradetto Saracca. Vi prende parte ogni età, bambini, giovani, spose e madri…(..) Le giovani di cascina vanno a casa a notte inoltrata e con sfrontatezza rispondono ai giusti richiami della famiglia. Altre giovani, già incallite nel vizio si accompagnano a uomini… e seguite dai facili commenti di tutti. E’ la rovina delle rovine, un continuo scandalo. Il sindaco sarebbe pronto a permettere anche 10 balli, uno per osteria, se ne venisse richiesto. Nessuno può impedire si sfacciata immoralità? Voglio rivolgermi al Cielo.”

Le considerazioni espresse dal sacerdote riflettevano le tematiche proprie di un esponente della chiesa preoccupato dei risvolti etico-morali che certi comportamenti potevano provocare; in realtà a partire dalla fine dell’Ottocento il problema dell’abuso di sostanze alcoliche diventerà una situazione sempre più allarmante che le autorità, con estrema fatica e ritardo, saranno costrette a dover affrontare tanto a livello centrale che periferico. Mentre la piaga della pellagra iniziava ad allentare i suoi malefici effetti sui territori del Nord Italia alcune congiunture economiche finivano per favorire in particolare il consumo del vino.

La guerra doganale con la Francia (1887) aveva comportato, fra i vari effetti, una forte riduzione delle esportazioni di vino con il conseguente crollo dei prezzi sul mercato interno. Fino ad allora il consumo di alcolici fra le popolazioni contadine e cittadine risultava assai modesto; il valore del vino impediva a larghe fasce di popolazione di poter accedere ad una bevanda tanto ambita quanto proibita per il risicato bilancio famigliare allora in essere.

Nelle città la situazione non era di certo migliore; nelle campagne si poteva usufruire di piccole produzioni proprie o di miscele annacquate mediante il lavaggio degli scarti di uve. In ambito urbano invece l’osteria rappresentava l’approdo necessario per chi volesse assaporare in compagnia qualche bicchiere di vino.

L’osteria costituiva, infatti, il luogo privilegiato dove gli operai, in particolare, si radunavano alla fine del lavoro per condividere alcuni momenti dopo la dura giornata di fatica; di tali luoghi ne esistevano di diverse gradualità che si distinguevano sia per la qualità degli ambienti che per la tipologia di clientela.

Da un punto di vista amministrativo, nella città di Cremona, si suddividevano in tre categorie; l’ultima si profilava spesso come una sorta di bettola accompagnata da una pessima fama e ambigue frequentazioni. Per quest’ultima fattispecie si era giunti anche a rendere obbligatoria la chiusura in anticipo rispetto agli orari cui erano sottoposti gli altri esercizi. Le cronache dell’epoca riportavano di frequenti episodi di violenza che si reiteravano nelle osterie o nelle immediate vicinanze. L’abuso di bevande favoriva il verificarsi di risse e scontri che da verbali finivano poi per tramutarsi in scazzottate o duelli all’arma bianca. In diversi locali oltre alla mescita del vino si acconsentiva, in contrasto alle disposizioni vigenti, alla pratica di giochi d’azzardo che accentuavano la tensione e l’irascibilità dei convenuti.

Tra i vari episodi che si possono riportare, ad esempio, quello avvenuto nell’osteria di terza categoria posta in contrada Gioconda, detta del “suin”, in cui veniva ferito gravemente un avventore di Vescovato ad opera di un cameriere; il possibile movente si riteneva originato dal gioco d’azzardo che diversi avventori praticavano nel locale.

All’uscita del locale gestito da Piccioni Eugenio in via Cistello si consumava invece un tragico omicidio maturato all’interno e conclusosi con il ferimento mortale. Il diffuso possesso di armi da taglio ingenerava con estrema facilità reazioni scomposte come quella verificatasi nel locale di Podestà Giovanni, collocato in via Capellana, dove veniva arrestato un fabbro ferraio per l’uso improprio di una lama.

L’eccitamento prodotto dall’assunzione di alcolici degenerava a volte anche in aperte ribellioni nei confronti delle forze dell’ordine; a Sesto una pattuglia di carabinieri della stazione di Acquanegra che sollecitava la titolare di un caffè a rispettare l’orario di chiusura veniva circondata da un folto gruppo di giovani con evidenti intenti ostili tanto da richiedere l’esplosione di colpi di arma da fuoco per disperdere l’assembramento.

Con la diffusione dei consumi le osterie finivano per perdere definitivamente quella sorta di nomea romantica di ritrovo dove si era anche formata una coscienza di classe. Le prime “sedi” del partito socialista si identificavano, infatti, con alcune osterie dove gli operai potevano incontrarsi e discutere le loro istanze; i primi referenti sul territorio del movimento socialista si annoveravano sovente fra i gestori di esercizi pubblici. Lo stesso Leonida Bissolati, indiscusso leader cremonese del partito, aveva eretto come una sorta di “ufficio” la famosa osteria gestita dalla Marcella in corso Vittorio Emanuele.

La dicotomia fra borghesi e proletari si rifletteva anche nei luoghi frequentati: i primi si indirizzavano verso gli eleganti caffè che offrivano ambienti raffinati mentre i secondi si radunavano per necessità ma anche con orgoglio in fumose e spartane stanze.

A partire dall’inizio del Novecento la situazione mutava sensibilmente; le statistiche relative ai consumi procapite di bevande alcoliche segnalavano, rispetto alle rilevazioni precedenti, un’ulteriore forte impennata. Il dato ovviamente finiva per riflettersi anche sul numero considerevole di nuovi esercizi di vendita che sorgevano pure nella città di Cremona; il novero dei caffè e dei locali di lusso in vent’anni regrediva leggermente mentre le aperture di nuove osterie e “liquoristi” assumevano numeri allarmanti.
All’alba del nuovo secolo a Cremona, con una popolazione stimata attorno ai 31.077 residenti, operavano oltre 200 osterie, pari ad una ogni 150 abitanti; la situazione venutasi a creare si andava accentuando nel corso della cosiddetta “età giolittiana, ossia il periodo che traghettava il Paese dalla svolta autoritaria di fine secolo alla Grande Guerra.

Lo sviluppo economico, coniugato ad una serie di riforme in ambito sociale, aveva prodotto un leggero miglioramento anche nelle classi meno abbienti. Un aumento dei salari, sempre più corrisposti in denaro piuttosto che in appendici in natura, garantiva una maggiore disponibilità economica che purtroppo spesso veniva indirizzava in svaghi di scarsa utilità. I compensi, elargiti al tempo anche a scadenza settimanale, venivano sovente effettuati direttamente nelle osterie dove finivano per essere dilapidati in tempi assai rapidi.

La “questione alcolica” si manifestava sempre più come una nuova piaga che finiva per riflettersi sui luoghi di lavoro, in famiglia e nella società in generale. Le osterie erano ormai viste come luoghi di “infezione sociale” dove l’assuntore lentamente scivolava verso uno stato di intossicazione cronica; l’alcolismo era considerato da più parti come un “male operaio”.
Gli stessi socialisti avvertivano quanto fosse deleterio e disdicevole la deriva alcolica di tanti appartenenti alla classe operaia; la coscienza di classe ed il senso etico dell’agire dell’operaio rischiavano di infrangersi in stili di vita copiati dalla odiata borghesia. Lo stesso Filippo Turati, esponente di spicco del socialismo italiano con trascorsi in terra cremonese, risultava fra i più fervidi sostenitori circa la necessità di introdurre provvedimenti finalizzati a contrastare il dilagare dell’alcolismo.

A fronte della consistente crescita dei consumi di alcolici si sviluppava parallelamente una rete di organizzazioni dedite al contrasto a tale fenomeno; in numerose città sorgevano infatti società antialcoliche volte sia a promuovere stili di vita più morigerati fra la popolazione che ad incalzare le autorità preposte ad adottare provvedimenti restrittivi per arginare la piaga imperante. Già nel luglio del 1904 un congresso convocato a Venezia chiamava a raccolta le varie società territoriali per elaborare una comune analisi volta sia allo studio che all’azione pratica negli ambienti maggiormente a rischio. La risposta della politica rispetto alle istanze promosse tanto dai sodalizi di volontariato quanto dall’evidente emergenza in atto non risultava certo pari a quanto sarebbe risultato necessario.

La proposta di legge avanzata dal Presidente del Consiglio Luigi Luzzatti nel 1910 terminerà il suo iter parlamentare solo tre anni dopo talmente ridimensionata rispetto ai propositi iniziali da renderla pressoché inefficace a dispiegare ogni vera forma di lotta all’alcolismo. L’annacquamento delle disposizioni più stringenti si era prodotta in forza anche delle pressioni esercitate dalle lobby del settore che temevano una contrazione dei consumi. Durante il passaggio della legge in Senato veniva ad esempio tolto il divieto di fornire alcolici ai minori di sedici anni o di sottoporre a rinnovo annuale le licenze degli esercenti dei pubblici esercizi. La disposizione che prevedeva il ricovero coatto degli alcolisti cronici o pericolosi finiva anch’essa per essere cancellata in quanto si riteneva troppo onerosa per le casse pubbliche. L’allora Presidente del Consiglio Giolitti dichiarava infatti che non intendeva mantenere tutti “gli ubriaconi d’Italia” a spese dei contribuenti.

Con l’inizio della Grande Guerra il contrasto alla diffusione degli alcolici scemava ulteriormente; l’utilizzo di tali bevande rispondeva tanto allo scopo di galvanizzare quanto di anestetizzare un’opinione pubblica frastornata dagli eventi bellici e l’alcol iniziava così a diffondersi ulteriormente negli esercizi pubblici e nelle trincee.

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