Cultura

Estate '42, Cremona rifugio per gli
sfollati slavi di opposte fazioni

Foto di copertina del volume "Ospedale Germani", una storia centenaria, 1898"

Podhum, Jelenje, Castua, piccoli villaggi croati assai lontani dal nostro immaginario eppure accomunati alla nostra storia per un intreccio sviluppatosi durante la Seconda Guerra Mondiale; una vicenda scaturita in conseguenza dell’occupazione tedesca della Jugoslavia, avviata il 6 aprile del 1941, e la conseguente suddivisione del Paese in zone di influenza diretta con l’alleato italiano. Un confine, quello orientale, assai complesso e tribolato dove i torti e le ragioni si perdevano in un tempo indefinito.

La città di Fiume assumeva il ruolo di capoluogo della regione del Carnaro, un territorio che dalla costa si incuneava verso l’interno. Le località ricordate si collocavano a poco più di dieci chilometri dal centro principale; l’occupazione militare italiana, tesa a condurre una azione di “italianizzazione forzata”, ben presto suscitava una forte reazione da parte delle popolazioni locali.
Per contrastare l’azione dei ribelli le autorità italiane misero in atto una politica di repressione piuttosto drastica e contrassegnata da numerosi episodi di rappresaglia contro i civili. Fra queste va, infatti, ricordata la fucilazione, avvenuta il 12  luglio del ’42, di oltre un centinaio di residenti a Podhum e Jelenje come ritorsione verso condotte svolte dai partigiani slavi a danno della rappresentanza italiana. Per sradicare la lotta condotta dai locali si arrivò a svuotare interi villaggi trasferendo i residenti verso campi di internamento e diverse località italiane. In aggiunta si trasferivano anche cittadini locali che, avendo collaborato con le forze di occupazione, temevano la ritorsione dei partigiani del luogo.

Nel territorio cremonese giunsero, separatamente, entrambi i gruppi interessati dall’allontanamento obbligato dai territori slavi; a Cremona venivano pertanto alloggiati i cosiddetti “collaborazionisti”, mentre a Cingia de’ Botti furono trasferiti i “congiunti dei ribelli”.

Dallo spoglio del materiale depositato presso l’Archivio di Stato e presso il Comune di Cingia, visionato nel 2007, si può delineare qualche dettaglio riferito a quella sofferta situazione.

La scelta operata dalla prefettura di inviare gli internati provenienti dal confine orientale presso l’abitato di Cingia de’ Botti rispondeva ad un criterio di pratica organizzativa; la presenza della caserma dell’Arma e di uno stabile in grado di ospitare un congruo numero di persone in tempi rapidi, costituivano i requisiti indispensabili per portare a termine l’operazione. Nella tarda primavera del 1942 l’ospizio Germani operava ancora secondo l’abituale vocazione di ricovero di mendicità in linea con le disposizioni testamentarie della fondatrice. Nel corso della guerra invece la sua ricezione muterà in maniera radicale finendo per ospitare sfollati provenienti da diverse città italiane (Messina-Livorno-Milano) e dal piccolo comune di Vallerotonda (Frosinone).
Nel gennaio del ’43 la prefettura sondava il comune per verificare la possibilità di collocare presso l’ospizio cinquanta minori con urgente necessità di ricovero; il podestà evidenziava l’impossibilità di fronteggiare tale richiesta stante la concomitante presenza di circa ottanta internati slavi.

L’arrivo dei primi internati slavi a Cingia de’ Botti si era verificato verso la seconda metà di giugno del ’42; il primo contingente veniva collocato in un’ala dell’ospedale Germani a partire dal 28 giugno. Le schede anagrafiche predisposte all’ingresso nel comune evidenziavano le località d’origine dei vari gruppi famigliari accolti nella struttura di ricovero; tutti i soggetti provenivano da Podhum e Jelenje a conferma che le operazioni di trasferimento da quelle due comunità erano già iniziate ancor prima dell’eccidio del 12 luglio.

Le loro età e professioni risultavano assai variegate; alcuni si mostravano, per l’epoca, già in età avanzata mentre altri, specie fra le donne, con un profilo anagrafico più recente. L’impiego prevalente era la professione di falegname o di operaio generico; altri invece provenivano dal comparto agricolo. Nonostante le limitazioni cui erano sottoposti rispetto ad ogni anche minimo spostamento anche per loro era previsto l’inserimento lavorativo presso realtà del luogo; la carenza di manodopera, richiamata in larga parte alle armi, rendeva assai preziosa la presenza di individui ben disposti ad impiegarsi in lavori che garantivano un cespite economico alquanto prezioso.
Nell’archivio comunale di Cingia de’ Botti è depositato un elenco dettagliato riferito al collocamento degli uomini presso le numerose aziende agricole del territorio; le donne invece si prestavano ad impiegarsi presso alcune famiglie del posto.

Il loro compenso, derivante dalla somma percepita come sussidio statale e dalla retribuzione lavorativa, non doveva comunque superare l’indennità prevista per gli occupati locali.
Al primo nucleo di internati se ne aggiungeranno in seguito altri due giunti rispettivamente il ventotto luglio e l’otto agosto; con i nuovi arrivi, stimati in circa cinquanta unità, ben due comparti della struttura risultavano in tal modo interamente destinati a soddisfare l’alloggiamento richiesto dalla prefettura cremonese.
Dopo la fucilazione avvenuta all’inizio di luglio l’intera popolazione delle due località, stimata in circa 900 unità, veniva trasferita in massa e destinata, infine, ad essere distribuita in vari centri della penisola. Per quanto riguarda la presenza degli internati slavi nel comune cremonese si può affermare, di fatto, che la loro convivenza con la popolazione locale non diede mai origine, almeno stante al materiale documentale visionato, a particolari attriti. Come avvenne anche in altre località del territorio cremonese, dove erano stati collocati internati di altre nazionalità, spesso i locali mostravano simpatia e rispetto verso individui in evidente stato di difficoltà e sottoposti a privazioni di vario genere. In diversi contesti risultarono più articolati e complessi i rapporti con le popolazioni poste lungo la linea Gustav(Frosinone) e trasferite poi, in massa, al nord per ragioni di sicurezza.

Lo stesso podestà di Cingia si spese in numerose situazioni per agevolare le richieste avanzate dagli internati rispetto alle più svariate situazioni dell’agire quotidiano; l’azione pragmatica di un amministratore risultava preziosa per fronteggiare e dipanare le storture e rigidità di una burocrazia propria del periodo bellico.
All’inizio di settembre inoltrava un quesito alla questura di Cremona per verificare la facoltà degli internati di essere impiegati presso attività poste al di fuori del proprio territorio ma comunque rientranti nelle comunità sottoposte alla giurisdizione dei locali carabinieri. Un agricoltore di Motta Baluffi, proprietario di un vasto podere, si era infatti interessato per poter attingere manodopera presso gli internati di Cingia; per agevolare la pratica si era dato disponibile ad offrire loro anche un alloggio o, se non fattibile per impedimenti normativi, di trasferirli a sue spese quotidianamente fra le due località.

Ad un internato che, in seguito alle varie traversie occorse, aveva smarrito il proprio libretto della pensione il podestà si era attivato presso la prefettura di Fiume affinché gli fosse recapitato un duplicato in grado di consentirgli di percepire l’indennità prevista; a due internate, che intendevano recarsi a far visita ad una congiunta che aveva partorito presso l’ospedale di Cremona, il podestà fece in modo di accelerare la concessione di un permesso straordinario per uscire dal paese.

L’intervento più rimarchevole approntato dall’amministratore di Cingia riguardava la triste situazione in cui versavano i quindici orfani, privi di congiunti diretti, che si trovavano ospitati presso l’ospizio; giunti durante la stagione estiva si trovavano, nell’imminenza dell’inverno, ancora abbigliati con indumenti non adeguati a contrastare i rigori della stagione incombente. La sua richiesta, inoltrata alla prefettura, prevedeva un rimborso di 1.500 lire, erogate poi per competenza dal Ministero dell’Interno, per garantire ai minori il minimo vestiario necessario per superare il periodo invernale. Per gli stessi piccoli in età scolare si adoperò affinché potessero frequentare le locali scuole in modo d’acquisire una adeguata conoscenza della lingua italiana.

Verso la metà di luglio dal ministero dell’Interno si comunicava alla Prefettura che circa un migliaio di persone residenti nella zona del Carnaro avevano abbandonato le loro abitazioni rifugiandosi altrove e richiedendo protezione alle autorità italiane. La situazione nei territori interni si era ulteriormente aggravata e per chi aveva prestato collaborazione alle forze italiane o si manteneva comunque distante dai gruppi dei “ribelli” percepiva un clima di forte preoccupazione.
La federazione fascista di Lubiana si era pertanto attivata per agevolare la fuoriuscita in sicurezza di quegli elementi che si erano distinti come informatori o fiancheggiatori delle truppe di occupazione.
La prefettura del Carnaro predisponeva pertanto l’allontanamento, in piccoli scaglioni, dei cosiddetti “proteggendi” verso varie località italiane; nei loro riguardi si invitavano le autorità competenti a predisporre un conveniente servizio di accoglienza sia per l’alloggio che per il vitto avvalendosi anche della collaborazione del partito fascista. Quest’ultimo doveva prestarsi al fine di sviluppare una vicinanza e assistenza morale coniugata con una adeguata opera di propaganda politica. Le disposizioni relative alle pratiche di censura e vigilanza dovevano ovviamente attuarsi con modalità meno puntuali rispetto agli internati congiunti dei ribelli; la loro corrispondenza risultava oggetto di saltuaria verifica, salvo provvedimenti mirati all’insorgere di eventuali condotte sospette.

Le sei famiglie giunte a Cremona il 17 luglio (domenica) provenivano dal villaggio di Castua, una località posta a circa dieci chilometri da Fiume; l’alloggio dei ventiquattro sfollati, fra cui diversi minori, veniva individuato presso l’asilo notturno Broggi Simoni di via Cadore. Per mangiare ci si rivolgeva invece alla trattoria di Giuseppina Capellini di via Sicardo, ogni capofamiglia disponeva di una diaria giornaliera di otto lire mentre agli altri componenti maggiorenni della famiglia ne spettavano quattro. Gli uomini ospitati a Cremona manifestavano contrarietà ad essere impiegati in lavori agricoli preferendo trovare occupazione presso attività industriali.

Verso la fine del mese di ottobre tutti i sei nuclei famigliari rivolgevano istanza per poter far rientro alle rispettive località d’origine; a loro dire la situazione si era normalizzata e lo stato di potenziale pericolo che li aveva indotti a sfollare era in gran parte rientrato. La richiesta non trovava però un riscontro positivo in quanto dalla prefettura di Fiume si sottolineava come il rientro degli sfollati non appariva opportuno e che …”molti villaggi ove i suddetti risiedevano sono stati distrutti nel corso di operazioni di polizia militare.”
L’informativa pervenuta dal capoluogo del Carnaro testimonia in maniera eloquente circa i metodi impiegati dai militari italiani per contrastare la guerriglia condotta dalle popolazioni locali: sfollamento dei residenti e distruzione dei paesi ritenuti conniventi con il nemico. Un’operazione tesa a far terra bruciata attorno ai ribelli togliendo loro ogni tipo di sostegno sovente offerto dalle comunità di riferimento. Nella primavera del ’43 infine due delle famiglie sfollate a Cremona riuscivano a far rientro presso congiunti là residenti.

Fabrizio Superti

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