Il cremonese Ghisolfi primo sviluppatore del linguaggio delle spie
di Marco Bragazzi
Uno dei primi agenti segreti della storia. Siamo a Cremona, nella seconda metà del 1300 quando viene alla luce, nelle vicinanze del Duomo, un bambino che verrà battezzato con il nome di Martinum de Ghisulphis, ovvero Martino Ghisolfi. Martino Ghisolfi, praticamente sconosciuto nella sua città natale, rappresenta il punto di partenza dello spionaggio “organizzato”, in quanto fu il primo a sviluppare in maniera scientifica un linguaggio sviluppato ad uso e consumo delle spie. Nel XIV secolo lo Stato Pontificio si era dotato del miglior “servizio segreto” di allora ma, nell’Italia divisa in sfere d’influenza legate ai vari casati nobiliari, cominciò prendere piede la necessità di comunicare costantemente senza che altre persone potessero intercettare e tradurre i contenuti dei messaggi.
La comunicazione era, ed è ancora, la necessità basilare per sviluppare alleanze, accordi o organizzare guerre, conquiste o processi di pacificazione. Fu allora che Francesco I Gonzaga, a Mantova, chiamò alla sua corte Martino Ghisolfi, la famiglia nobiliare mantovana era in forte espansione però per mantenere e sviluppare il potere era necessario che gli accordi segreti tra i vari casati italiani rimanessero tali. Ghisolfi arrivò a Mantova applicò e sviluppò in maniera organica il suo concetto di “ziffre”, ovvero cifre, in pratica legare dei valori numerici o disegni all’alfabeto, fatto che oggi è, e rimane, il concetto base della cifratura dei messaggi. Basti pensare alla cifratura usata da ognuno di noi quando, fin dalle elementari, volevamo passare messaggi agli amichetti di classe che potevano essere intercettati da altri, per renderli incomprensibili utilizzavamo numeri o disegni al posto delle lettere. Semplice ma estremamente funzionale anche per dei bambini ma incomprensibile senza una chiave di lettura. Secoli fa Ghisolfi ebbe la capacità e il merito di mettere in pratica lo sviluppo di linguaggi segreti applicandoli a numeri o disegni creando un linguaggio talmente evoluto da essere considerato uno dei pilastri della cifratura, “arte” poi sviluppata decenni dopo dal genovese Leon Battista Alberti. La chiave di lettura della crittografia di Ghisolfi era quella della sicurezza e simulazione, forte di una preparazione matematica e filosofica di livello il cremonese aveva creato una struttura alfabetica cifrata basata su 54 codici diversi destinati a 42 persone differenti, ambasciatori, dignitari, nobili e militari avevano almeno uno o più codici a loro disposizione per scrivere o leggere le missive che gli venivano recapitate. La sicurezza era legata che solo Ghisolfi era in grado di avere le chiavi di lettura di tutti i codici mentre i dignitari erano solo a conoscenza del proprio, la simulazione era legata al fatto che alcuni codici erano semplicissimi (ad esempio la lettera A era scritta con la B e viceversa) mentre altri si basavano su una struttura algebrica molto complicata. La persona estranea che riusciva ad intercettare il messaggio non era in grado di capire il codice proprio perchè veniva simulato un algoritmo di scrittura che poteva essere quasi intuitivo oppure molto complicato, in pratica il significato del messaggio cambiava in maniera radicale senza diventare mai realmente comprensibile.
La raccolta del suo lavoro con le cifre e i codici prese il nome di “Quaternetus ziffrarum M.ci D.N. exemplatum per me Martinum de Ghisulphis eius scribam de anno 1406”, offrendo una datazione certa sul lavoro affrontato dal geniale crittoanalista cremonese. La semplicità della impostazione del lavoro fu tale che i Gonzaga, alla morte di Ghisolfi, decisero di investire tempo e denaro per sviluppare nuovi codici studiati con altri analisti. La scelta del casato nobiliare mantovano non diede i frutti sperati, pur con l’utilizzo di nuove macchine e nuove menti i Gonzaga rimasero sempre fedeli ai codici “cremonesi” in quanto realmente semplici ma estremamente funzionali per la capacità di simulare significati diversi anche sulla stessa chiave di lettura. Sicurezza e simulazione, ovvero le “parole chiave” del linguaggio segreto dei Gonzaga che rimase tale fino agli inizi del XVIII secolo. Dopo Ghisolfi l’eredità e lo sviluppo della crittografia fu portato avanti da un altro dei grandi talenti della materia, il cremonese Cicco Simonetta, che sviluppò un codici segreti in grado di resistere per centinaia di anni.