Capaci, 31 anni di processi alla ricerca della verità
(Adnkronos) – “Gioè mi dice via, via, cioè me lo dice 3 volte, alla terza volta io aziono il telecomando”. E’ l’ex boss di San Giuseppe Jato Giovanni Brusca a raccontare ai magistrati i momenti che hanno preceduto la strage di Capaci. E’ il 28 marzo 1997 e l’ex boia, nel frattempo diventato collaboratore di giustizia e oggi uomo libero, risponde così al pm Luca Tescaroli durante il processo di primo grado per la strage per spiegare come aveva provocato lo scoppio poderoso che ha prodotto la strage di Capaci, azionando il telecomando, procurato dall’esperto artificiere Pietro Rampulla. L’esplosione, come si è stabilito attraverso la rivelazione dell’istituto Nazionale di Geofisica della stazione di Monte Cammarata, avviene pochi istanti prima delle 17.58. Quello di Caltanissetta è soltanto uno dei numerosi processi per la strage di Capaci, costata la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti di scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. L’ultimo, in ordine di tempo, è ancora in corso. A 31 anni dalla strage. E la prossima udienza si terrà tra due giorni, il 25 maggio, nell’aula bunker del carcere Malaspina di Caltanissetta. C’è un unico imputato: Matteo Messina Denaro, l’ultima primula rossa arrestata lo scorso 16 gennaio dopo 30 anni di latitanza.
Il boss, detenuto all’Aquila, potrebbe apparire per la prima volta, in videocollegamento. La scorsa udienza ha dato forfait, dopo che il suo legale di fiducia, Lorenza Guttadauro, che è anche la nipote del boss, ha deciso di rinunciare all’incarico. E dopo un altro forfait, quello dell’avvocato Calogero Montante, che ha presentato il certificato medico dopo avere ricevuto delle minacce telefoniche, è stata scelta una giovane legale d’ufficio, Adriana Vella. “Non mi spaventa difendere Matteo Messina Denaro, per me è un imputato come tutti gli altri. Sono tranquilla”, aveva detto lo scorso 23 marzo alla fine dell’udienza all’Adnkronos, anche se le mani e la voce tremante avevano tradito le sue parole. Dopo due rinunce consecutive, il capomafia detenuto all’Aquila, ha adesso un difensore. Seppure d’ufficio. Sarà proprio lei, Adriana Vella del foro di Caltanissetta, a dovere fare la discussione nel processo d’appello che vede il capomafia di Castelvetrano imputato per le stragi mafiose del ’92 in cui furono uccisi i giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. In primo grado, Messina Denaro fu condannato all’ergastolo.
Ma come nascono i primi processi sulla strage? L’input investigativo che ha consentito di ricostruire la fase preparatoria ed esecutiva dell’eccidio, verificatosi a ridosso dello svincolo autostradale di Capaci, è stato fornito da Giuseppe Marchese, nel settembre 1992, all’indomani dell’inizio della sua collaborazione. Disse ai pm di adocchiare Gioacchino La Barbera, Antonino Gioè e tale Santino Mezzanasca per giungere all’individuazione dei responsabili. La conseguente attività investigativa nei loro confronti fece comprendere che La Barbera e Gioè vivevano in clandestinità in un appartamento di via Ughetti, al civico n. 17, a Palermo e consentito di identificare Mezzanasca in Mario Santo di Matteo. Il riascolto, nel maggio del 1993, dei colloqui intercettati al suo interno consentì di comprendere che, dalle 0,40 alle 1,55 del 9 marzo 1992, La Barbera si rivolgeva a Gioè, dicendogli per indicare un dato luogo: “ti ricordi u carruzzerivicinu uni aspettai ddocu, ddocu a Capaci uni ci fici (o ci ficimu) l’attentatuni”. Su tali risultanze sono confluite prove “pesanti come macigni”, come disse il pm Luca Tescaroli “idonee a resistere ai tentativi di depistaggio del passato e del presente – in parte significativa costituite dalle confessioni severamente verificate di otto uomini d’onore partecipi al delitto”.
Numerosi ergastoli, ma rimangono ancora tanti punti oscuri sulla strage. Per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di “ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell’ideazione e nell’esecuzione dello stragismo dei primi anni Novanta”. Come ha scritto di recente il Tribunale di Caltanissetta in un altro processo importante, quello sul depistaggio Borsellino. E, segnatamente, con riferimento alla strage di Capaci rimangono aperti alcuni quesiti e permangono i seguenti aspetti non chiariti. Come mai Paolo Bellini s’incontrò con l’esecutore della strage di Capaci Antonino Gioè e perché istillò il proposito di colpire la Torre di Pisa? Le ragioni e le modalità della morte di Antonino Gioè il 29 luglio 1993, all’indomani degli attentati nelle città di Roma e Milano del 27-28 luglio 1993 sono rimaste non chiarite. Perché e da chi sono stati manomessi alcuni supporti informatici di Giovanni Falcone? Tante domande. Senza risposta, dopo 31 anni.
Nel 2022 la Corte di Cassazione condannato all’ergastolo i quattro mafiosi accusati di aver preso parte all’organizzazione della strage e di aver reperito l’esplosivo che sventrò l’autostrada per Palermo e inaugurò la stagione stragista ed eversiva di Cosa Nostra. Sono così diventate definitive le condanne al carcere a vita per Salvatore Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro e Lorenzo Tinnirello. Ed è diventata definitiva anche l’assoluzione di Vittorio Tutino. I supremi giudici hanno respinto tutti i ricorsi delle difese, come chiesto anche dalla Procura della Cassazione rappresentata dalla Pg Delia Cardia, che ha sottolineato lo stretto coordinamento con il Procuratore generale Giovanni Salvi nel definire la requisitoria. Non tornerà quindi sotto processo Vittorio Tutino, il “soldato di mafia”, così lo ha definito Cardia, uscito sempre prosciolto dal processo nonostante del suo “attivismo” nella stagione delle bombe abbia parlato Gaspare Spatuzza, il pentito che ha svelato i depistaggi nelle indagini sull’attentato a Paolo Borsellino e alla sua scorta. Nel 2008 la Cassazione ha condannato i mandanti della strage di Capaci – il ‘gotha’ di Cosa Nostra – e gli esecutori materiali, tra i quali Giovanni Brusca, che azionò il telecomando. Il verdetto su Capaci bis chiude dunque il cerchio. La Pg Cardia aveva però sostenuto che “nell’assoluzione di Tutino c’è stata da parte della sentenza di appello una caduta totale di logicità nel metodo utilizzato, si è seguito un percorso tutto di facciata”.
A far scattare il piano che portò alla morte di Falcone decisa da Cosa Nostra tra il 1982 e il 1986 è stato il passaggio in giudicato delle condanne del maxiprocesso, un esercito iniziale di 471 imputati di mafia, ratificate dalla Cassazione il 30 gennaio 1992. E tra pochi giorni, i giudici si troveranno faccia a faccia con il boss dei boss Matteo Messina Denaro. Parlerà? (di Elvira Terranova)