Colera, primo caso in Sardegna dopo 50 anni: cos’è e come si trasmette la malattia
(Adnkronos) – Primo caso di colera in Sardegna, dopo 50 anni. Nel reparto di Malattie infettive dell’ospedale Santissima Trinità di Cagliari è ricoverato un pensionato di 71 anni. Il paziente “sta bene. Appena si sarà negativizzato verrà dimesso”, spiega all’Adnkronos Salute Goffredo Angiomi, direttore Sc malattie infettive ospedale Ss Trinità dell’Asl di Cagliari. Ma cos’è il colera e come si trasmette? Quali sono le modalità di contagio e i sintomi della malattia?
“Il colera è un’infezione diarroica acuta causata dal batterio Vibrio cholerae – si legge su EpiCentro, sito dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) – La sua trasmissione avviene per contatto orale, diretto o indiretto, con feci o alimenti contaminati e nei casi più gravi può portare a pericolosi fenomeni di disidratazione. Nel diciannovesimo secolo il colera si è diffuso più volte dalla sua area originaria attorno al delta del Gange verso il resto del mondo, dando origine a sei pandemie” che “hanno ucciso milioni di persone in tutto il mondo. La settima pandemia è ancora in corso: è iniziata nel 1961 in Asia meridionale, raggiungendo poi l’Africa nel 1971 e l’America nel 1991. Oggi la malattia è considerata endemica in molti Paesi e il batterio che la provoca non è ancora stato eliminato dall’ambiente”.
“I sierogruppi di Vibrio cholerae che possono causare epidemie sono due: il Vibrio cholerae 01 e il Vibrio cholerae 0139. La principale riserva di questi patogeni sono rappresentati dall’uomo e dalle acque, soprattutto quelle salmastre presenti negli estuari, spesso ricchi di alghe e plancton. Il sierogruppo 01 provoca la maggior parte delle epidemie e, secondo recenti studi, il cambiamento climatico potrebbe favorire la formazione di ambienti adatti alla sua diffusione. Il sierogruppo 0139, invece, è stato identificato nel 1992 in Bangladesh e, per ora, la sua diffusione è stata accertata solo nel Sud-est asiatico. Gli altri gruppi di Vibrio cholerae possono causare deboli forme di diarrea, che però non si sviluppano in vere e proprie epidemie”.
“Il colera è una malattia a trasmissione oro-fecale: può essere contratta in seguito all’ingestione di acqua o alimenti contaminati da materiale fecale di individui infetti (malati o portatori sani o convalescenti). I cibi più a rischio per la trasmissione della malattia sono quelli crudi o poco cotti e, in particolare, i frutti di mare. Anche altri alimenti possono comunque fungere da veicolo – spiega EpiCentro – Le scarse condizioni igienico-sanitarie di alcuni Paesi e la cattiva gestione degli impianti fognari e dell’acqua potabile sono le principali cause di epidemie di colera. Il batterio può vivere anche in ambienti naturali, come i fiumi salmastri e le zone costiere: per questo il rischio di contrarre l’infezione per l’ingestione di molluschi è elevato. Senza la contaminazione di cibo o acqua, il contagio diretto da persona a persona è molto raro in condizioni igienico-sanitarie normali. La carica batterica necessaria per la trasmissione dell’infezione è, infatti, superiore al milione: pertanto risulta molto difficile contagiare altri individui attraverso il semplice contatto”.
“Il periodo d’incubazione della malattia varia solitamente tra le 24 e le 72 ore (2-3 giorni), ma in casi eccezionali può oscillare tra le 2 ore e i 5 giorni, in funzione del numero di batteri ingeriti. Nel 75% dei casi le persone infettate non manifestano alcun sintomo. Al contrario, tra coloro che li manifestano, solo una piccola parte sviluppa una forma grave della malattia. Quando presente, il sintomo prevalente è la diarrea, acquosa e marrone all’inizio chiara e liquida successivamente (tipico è l’aspetto ad “acqua di riso”). In alcuni soggetti la continua perdita di liquidi può portare alla disidratazione e allo shock, che nei casi più gravi può essere rapidamente fatale. La febbre non è un sintomo prevalente della malattia, mentre possono manifestarsi vomito e crampi alle gambe”.
“L’aspetto più importante nel trattamento del colera – si sottolinea – è la reintegrazione dei liquidi e dei sali persi con la diarrea e il vomito. La reidratazione orale ha successo nel 90% dei casi, può avvenire tramite assunzione di soluzioni ricche di zuccheri, elettroliti e acqua, e deve essere intrapresa immediatamente. I casi più gravi necessitano, invece, di un ripristino dei fluidi intravenoso che, soprattutto all’inizio, richiede grandi volumi di liquidi, fino ai 4-6 litri. Con un’adeguata reidratazione solo l’1% dei pazienti muore e, di solito, in seguito al ripristino dei fluidi, la malattia si risolve autonomamente. Gli antibiotici, generalmente tetracicline o ciprofloxacina, possono abbreviare il decorso della malattia e ridurre l’intensità dei sintomi e sono utilizzati soprattutto per le forme più gravi o nei pazienti più a rischio, come gli anziani. L’approccio prescelto per la lotta al colera è spesso multisettoriale e coinvolge la gestione dell’acqua, la sanità pubblica, la pesca, l’agricoltura e l’educazione alla salute. Tuttavia, gli interventi più importanti per la prevenzione delle epidemie di colera riguardano la depurazione dell’acqua e il funzionamento del sistema fognario”.
“Garantire la sicurezza del cibo e dell’acqua e migliorare l’igiene sono, infatti, le condizioni di base per la prevenire le epidemie. Anche l’educazione al rispetto di accorgimenti igienici durante la preparazione o l’assunzione del cibo, come il lavarsi le mani con il sapone prima di iniziare a cucinare o mangiare, può contribuire a ridurre la diffusione delle epidemie. I vibrioni del colera sono, infatti, estremamente sensibili all’azione dei comuni detergenti e disinfettanti. Sono disponibili anche dei vaccini: tuttavia la loro efficacia, insieme a quella delle campagne di vaccinazione, deve ancora essere valutata e approfondita”, conclude EpiCentro.