Giornata dell'infermiere:
la cura è un luogo aperto
In occasione della Giornata Internazionale dell’Infermiere (12 maggio 2024), ecco le testimonianze di chi svolge questa importante professione in luoghi di cura considerati “chiusi”, come il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) di Cremona, la Casa Circondariale di Ca’ del Ferro, o ancora le abitazioni private, dove i pazienti più fragili ricevono le cure domiciliari. Contesti diversi, a volte difficili, in cui gli infermieri imparano a muoversi in punta di piedi, ascoltando i pazienti e i loro bisogni – anche quelli inespressi – per trovare la soluzione più adeguata. Preparazione, attenzione e rispetto della persona sono le caratteristiche irrinunciabili per chi sceglie questa professione, animato dal desiderio di aiutare gli altri.
«Faccio il lavoro più bello del mondo». Massimo Capodagli Colarizi lavora al Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Cremona. Marchigiano di origine, svolge la prima esperienza professionale in Friuli. «La psichiatria mi ha sempre affascinato – ricorda – Contrariamente a quanto si possa pensare, è un ambiente in cui si tira fuori il meglio di sé, dal punto di vista umano e professionale. Osservare un paziente psichiatrico è come guardare una persona con la lente d’ingrandimento: come noi hanno pensieri e sensazioni, ma hanno bisogno di aiuto per gestire ciò che vivono. Le terapie, l’assistenza, l’ascolto servono a questo. Basta poco per far del bene a qualcuno».
Il dialogo è tra gli strumenti più importanti nella cura della persona: «Lavorare in questo servizio ti permette di stringere relazioni durature con i pazienti che frequentano il reparto: conosci la loro vita, apprezzi con loro i progressi. La comunicazione apre tante strade: occorre conoscere la particolarità di ogni persona, superare la teoria e creare un punto di contatto, costruire fiducia». Lo stesso vale per i colleghi: «Ci sono situazioni che possono spaventare, ma non bisogna temere di parlare della paura. Confrontarsi e mettersi in discussione aiuta a superarla, a crescere e ad apprezzare il lavoro».
Come ricorda Massimo, «La nostra missione è rendere la psichiatria un luogo aperto e abbattere i pregiudizi che lo associano alla costrizione e all’isolamento». Senza dimenticare la vita fuori dal reparto: «La soddisfazione più grande è essere riconosciuti e salutati da un paziente in città, nel mondo fuori: significa che ti riconoscono come persona e hanno un ricordo positivo di te. Se stanno meglio è anche grazie al percorso fatto insieme».
«Vedo la persona, non le sbarre che ci dividono». Giovanni Foti lavora nella sanità penitenziaria. Dopo gli studi in infermieristica completati a Messina, nel 2018 si trasferisce a Cremona, dove inizia a lavorare nella Casa Circondariale di Ca’ del Ferro. «L’inizio non è stato tra i più semplici – racconta – era la prima esperienza a mille chilometri da casa… il primo giorno di lavoro, fa un certo effetto vedere le sbarre che si chiudono alle tue spalle. Ripetevo tra me e me: “Perché ho accettato?”…Ma in poco tempo è cambiato tutto».
Il carcere porta con sé uno stigma ancora molto marcato, difficile da cancellare. «È un pregiudizio molto forte – afferma Giovanni – Dal punto di vista professionale è come lavorare in un altro reparto ospedaliero, con qualche tutela in più. È importante capire con chi hai a che fare: chi vive in questo ambiente soffre la mancanza della libertà, degli affetti, degli spazi. Le attività e i corsi per liberare la mente non mancano, ma la solitudine si fa sentire. Spesso capita di essere fermati durante il giro di distribuzione della terapia, perché vogliono soltanto parlare».
Saper usare bene le parole e gestire il tempo condiviso è importante, e può fare la differenza. «L’approccio con i detenuti dev’essere graduale, sempre con gentilezza: di fronte a te c’è un uomo con la sua storia e le sue difficoltà. Creare relazioni positive è possibile, ma è altrettanto improntate mantenere un equilibrio e dare la giusta confidenza». Conoscersi e rispettarsi aiuta anche nel percorso riabilitativo: «Vivere in carcere può essere pesante: cerco di dare consigli, aiutare, ascoltare. Quando vedo un cambiamento positivo è una grande soddisfazione, che va oltre qualsiasi terapia».
«Per i nostri pazienti siamo un porto sicuro». Così Chiara Agosti, Infermiera di Famiglia e di Comunità, racconta la relazione con le persone che ogni giorno assiste a domicilio. Dopo la maturità ha frequentato il corso di studi in Infermieristica dell’Università di Brescia (sede di Cremona), seguito da tre master di specializzazione con diverso orientamento. L’esperienza professionale a Cremona inizia quindici anni fa, prima in Chirurgia Generale, poi in Terapia intensiva. Dal maggio 2023 lavora sul territorio come infermiera di Famiglia e di Comunità.
«All’inizio mi sono sentita un po’ spaesata: mi trovavo a lavorare in un contesto completamente diverso rispetto a quello cui ero abituata. A casa dei pazienti non puoi contare sulle tecnologie e sulla presenza clinica che offre l’ospedale». L’assistenza al domicilio richiede una cautela particolare: «Bisogna saper ascoltare, per capire le esigenze del paziente e saper leggere il suo contesto. Conquistare la fiducia della persona e della famiglia è fondamentale per trovare soluzioni condivise. Serve empatia e rispetto per la persona e per il suo vissuto, senza giudicare le situazioni che si incontrano».
Per Chiara, «Essere un infermiere di famiglia significa vedere la persona e 360 gradi. Per loro sono un punto di riferimento: sanno di potermi chiamare anche solo per un consiglio. Spesso le problematiche non sono solo sanitarie, ma si estendono al contesto sociale. Per questo è importante costruire una rete di relazioni con altri professionisti, come gli assistenti sociali, i medici di medicina generale, i fisioterapisti e gli educatori. È un lavoro di equipe, che rende la casa del paziente un luogo di cura, analizzando i fattori di rischio per trovare soluzioni. Il mio bagaglio di esperienze è servito per capire i fattori di rischio e aiutare la persona a prendersi cura di sé e mantenere un migliore stile di vita».
Stefano Zuccotti e Mila Perovic frequentano il terzo anno del Corso di Studi in Infermieristica dell’Università di Brescia. Per entrambi, la scelta di questo percorso professionale risponde al desiderio di mettersi al servizio degli altri.
«Avevo solo otto anni quando ho capito che questa sarebbe stata la mia strada», ricorda Stefano. «Mi piace essere d’aiuto, vivo ogni giorno con entusiasmo e motivazione. Durante i tirocini svolti in reparto ho lavorato molto bene con i colleghi, ho perfezionato le cose apprese in aula e ho imparato a costruire una relazione con i pazienti. Questa è una parte fondamentale del nostro lavoro: spesso, soprattutto in reparto, si ha poco tempo da dedicare alla relazione, ma è importante far capire al paziente che ci siamo, che siamo lì per loro. A volte capita di avere a che fare con pazienti “difficili”, ma è tutta questione di fiducia. Quando mi chiamano per nome è una bella soddisfazione e la conferma che sto facendo bene, che sono sulla strada giusta. Per loro non sono solo un infermiere, ma una persona».
Mila è entrata in contatto con questa professione durante la pandemia. «Mia madre è rimasta per diverso tempo ricoverata in ospedale – ricorda – comunicare era impossibile: quando tornata a casa mi raccontava sempre di come gli infermieri non l’hanno mai fatta sentire sola. Quell’esperienza mi ha fatto capire cosa avrei voluto fare da grande». Durante gli studi ha svolto un tirocinio in Neurologia, dove ha consolidato le conoscenze e ha imparato ad entrare in relazione con il paziente, affrontando le sue paure. «Ho imparato confrontarmi con la morte – racconta – non è stato semplice, ma lì ho avuto la conferma di aver scelto la strada giusta per me. Nelle prime settimane trascorse in reparto, ho assistito un paziente terminale: seguendo l’esempio dei colleghi, ho imparato ad ascoltarlo e a conoscere le cose semplici che potevano farlo stare meglio e sentire a casa. Per esempio, durante l’igiene personale mettevo le canzoni di Zucchero, o per il pranzo gli tenevo da parte lo yogurt alla ciliegia, il suo preferito. Quando se n’è andato non ero in turno, non ho potuto salutarlo…Perderlo è stata dura, ma è stata la sua famiglia a ringraziarmi per esserci stata. È una cosa che non dimenticherò».