Un racconto di Luisa Manfredini

Amore o punizione?

Un racconto di Luisa Manfredini

Era stato difficile strappare alla mamma il permesso di rientrare a mezzanotte, novella Cenerentola. Mamma e papà temevano il mondo fuori, gelosi di Camilla e dei suoi fratelli più piccoli mentre la più grande, Marta, era già sposata. C’erano sempre discussioni per gli accordi sulle uscite concesse a Camilla. La pratica religiosa era condizione assoluta: catechismo, adunanza, messa, benedizione, distribuzione del giornalino parrocchiale. «è tuo dovere!», questo il mantra per contrattare uscite e rientri. “Che palle!” pensava Camilla mentre sorrideva a denti stretti prima di uscire con i giornalini da distribuire. La scuola, altro compito da svolgere senza mai la gratificazione di un «Brava» (lei lo era), perché «Come papà fa il suo dovere lavorando, tu studiando devi fare il tuo”.

La vacanza estiva, desiderata più di ogni altra cosa, rappresentava la libertà. Quella sera era rimasta in spiaggia con gli amici. “Chissà cosa mi diranno”, non si era accorta che fosse così tardi. Correva verso la casa delle vacanze, il cuore martellava nel petto. “Spero che dormano!”

No: dietro la porta i loro volti severi e cupi nel buio della notte e quelle parole della mamma: «Chissà cosa hai fatto. Spudorata, che esempio dai ai tuoi fratelli…?» Il padre taceva, severo. Quelle parole e la mancanza di fiducia risultarono insopportabili per Camilla. Dopo aver finto di andare a letto, uscì di nascosto nella notte. Dormì in stazione e salì sul primo treno del mattino, fece ritorno alla casa di città, vuota. Non aveva le chiavi, quindi scavalcò il cancello e rimase nel giardino già pentita per la sua fuga, sola nel caldo cittadino.

All’improvviso il rumore di un’auto ruppe il silenzio, poi si sentì la voce di Marta, la sorella maggiore, che gridava il suo nome. Camilla sentì rimbombare il telefono nella casa vuota e Marta che cercava di entrare, ma l’agitazione le fece cadere le chiavi; quando le ebbe recuperate il telefono aveva già smesso di suonare. Marta uscì in giardino e vide Camilla, che si mise a gridare, in preda alla paura e al senso di colpa per ciò che aveva fatto. Marta, spaventata dalle urla di Camilla che non cessavano, strattonò la sorella e la fece salire in auto. Camilla non parlava ma urlava, urlava. Marta andò al Pronto Soccorso e il medico di turno, visto lo stato di Camilla, pensò fosse drogata e la dirottò alla Clinica Psichiatrica di zona. Camilla fu ricoverata lì, e smise di urlare per lo shock: non c’erano maniglie alle porte, né coltelli e forchette in tavola, e gli altri ricoverati sembravano tutti fuori di testa. “Io non sono pazza”, pensava, “se avessi avuto le chiavi di casa e avessi risposto al telefono… forse era papà che chiamava, gli avrei parlato, ci saremmo spiegati… mi sarebbe venuto a prendere a adesso non sarei qui”.

Era stato proprio suo padre a telefonare, speranzoso che la figlia si trovasse lì e che gli rispondesse, ma tutto era andato storto. Lui e la mamma non capirono mai quella fuga; quando riportarono Camilla a casa si domandarono se affrontare o meno il discorso con lei, ma non ne furono capaci. Non alzarono la voce, non volarono schiaffi, ma ciò che non si dissero rimase tra loro sempre in sospeso, come in agguato. Il loro forse fu un atto d’amore, per Camilla la peggiore punizione.