Un racconto di Monica Tosi
Frammenti
Un racconto di Monica Tosi
Non riesco a credere a quello che è accaduto. Ma le gocce di sangue sulle scarpe, i leggings umidi e appiccicaticci non lasciano dubbi. Un dolore acuto alla testa mi fa sobbalzare a ogni movimento. Non so cosa ho fatto. Non ricordo. Ho dei flash, come scatti in sequenza ma la sequenza continua a cambiare. Ines riversa a terra. Io che corro giù dalle scale. Ma questo è stato dopo. Prima avevo suonato il campanello, la ruvidezza dell’ottone ossidato sotto le dita. Ho atteso che Ines venisse ad aprirmi. Invano. Si sentiva il suono ovattato di musica ad alto volume. Ho pensato di andarmene ma la porta ha improvvisamente ceduto. Sono entrata cercando di orientarmi con le mani. Il televisore acceso su un canale musicale. L’origine del frastuono. Sono avanzata con cautela cercando il telecomando e chiamando Ines. Questo lo ricordo con chiarezza. Poi all’improvviso la stanza si è illuminata e subito è ripiombata nel buio. O almeno io ero al buio. Mi vedo che corro verso casa, a poche centinaia di metri. Ma dopo. Prima ero a terra vicino a un coltello da cucina rosso di sangue. Lo squillo di un telefono in sottofondo. Ero uscita come al solito per correre qualche kilometro in attesa che tornasse Fred dalla centrale di polizia. Da un mese avevo preso questa abitudine. Sana abitudine, rimarcava Fred. Sanissima, ribattevo io. Avevo iniziato per rimettermi in forma dopo la chemioterapia ma in realtà mi serviva per smaltire l’effetto degli psicotici che mi aveva prescritto il medico e il Soju con cui li avevo ingurgitati. Unica panacea per sopportare le giornate da ormai sei mesi, da quando mi avevano detto che non sarei mai diventata madre perché il cancro mi aveva devastato un’ovaia. Cosa se ne sarebbe fatto Fred di una moglie come me? Poi era arrivata lei, Ines. Ines con le gambe lunghe e i grandi occhi grigi. E lui era cambiato. Pareva assente. Si erano scambiati uno sguardo che avevo colto nello specchietto retrovisore dell’auto mentre recuperavo il cellulare. Ne avevo avuto conferma la settimana successiva mentre lui era di turno. Mi ero alzata dal letto non riuscendo a chiudere occhio. L’insonnia mi tormentava a giorni alterni. Ero sul balcone al buio, una Marlboro a tenermi compagnia. E li avevo visti. Lui le stava porgendo una borsina mentre lei singhiozzava e poi si erano avvicinati. L’immagine non era nitida perché si erano spostati in un angolo non illuminato. Ho deciso che le avrei parlato. Non poteva portarmi via Fred.
La testa continua a pulsarmi e il dolore ora è più forte a sinistra, dove sento un rigonfiamento. Flash vividi si infiltrano con insistenza fra i miei pensieri. Il trillo del telefono in lontananza è sempre presente. A volte smette per qualche istante per riprendere con vigore subito dopo.
Fred rientra con il suo passo lento. «Tutto bene oggi?
«Sì. E tu?»
Tutto bene, ma deve rispondere al telefono e si sposta in salotto. Lo seguo con il cuore che mi rimbomba nel petto cercando di carpire qualche parola.
«Sono appena stato lì. È arrivata la balistica e stiamo attendendo i risultati. Non toccate niente. Pare che stesse cucinando e che si sia difesa con quello che aveva sottomano. È stata la madre a dare l’allarme. Si sentono tutte le sere ma Ines non rispondeva al telefono».
Mi sento scivolare sul divano. Un’espressione di stupore disegnata sul viso. Le sirene spiegate delle volanti rimbombano in tutta la via mentre le luci blu dei lampeggianti si riflettono sul soffitto.
Il telefono ha smesso finalmente di squillare.
