Uccise "per orgoglio": 30 anni all'ex
geloso. Resta il nodo premeditazione
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Una condanna in primo grado a trent’anni di reclusione per omicidio aggravato dai futili motivi, dalla premeditazione e dalla recidiva, e dai reati connessi di porto in luogo pubblico e ricettazione di arma clandestina. Per Saverio Di Biase, 51enne residente ad Agnadello, la condanna di primo grado è stata confermata in Appello, ma con l’esclusione dell’aggravante dei futili motivi. Ora però la Cassazione ha annullato la sentenza di secondo grado, solo per quel che riguarda l’aggravante della premeditazione, ed ha rinviato sul punto alla Corte d’Assise d’Appello di Milano per un nuovo giudizio.
Si è trattato di un dramma della gelosia, ciò che era accaduto a Pandino il 13 luglio del 2018. Una tragedia che ha visto come vittima José Martin Barrionuevo Diaz, peruviano di 47 anni residente a Melzo, ammazzato in strada con tre colpi di pistola davanti alla propria compagna da Di Biase, ex convivente della donna contesa. Dopo l’omicidio, l’imputato, che faceva l’operaio nella stessa ditta in cui lavoravano la vittima e la ex, era stato braccato dai carabinieri al termine di una vera e propria caccia all’uomo conclusasi nel Milanese, a Settala. Alla vista dei militari, l’autore del delitto si era puntato la pistola contro il petto, ma era stato disarmato.
José Martin Barrionuevo Diaz era morto sul colpo davanti alla compagna: i tre si erano dati appuntamento per un incontro chiarificatore in via Fontana, a Pandino, ma Di Biase non aveva in alcun modo accettato la nuova relazione della donna e a quell’appuntamento si era presentato con una Smith Wesson calibro 7,65, opportunamente modificata e resa letale. Già in sede di udienza di convalida del fermo, Di Biase aveva ammesso le proprie responsabilità, dichiarando di aver ucciso il rivale in amore “per orgoglio”, perché non poteva “lavorare con loro che mangiavano insieme e si baciavano sul luogo di lavoro”.
Palese, dunque, in tutti i gradi di giudizio la responsabilità dell’imputato nell’omicidio. Ma per i giudici della Cassazione occorre una rivalutazione dell’aggravante della premeditazione: secondo la Suprema Corte, infatti, l’imputato “aveva scoperto l’identità dell’amante solo la sera prima dell’omicidio”, “aveva trascorso la notte precedente il delitto con la nuova compagna senza esternare alcun intento omicida”, aveva contattato la sua ex solo la mattina dei fatti, chiedendole di potersi incontrare con lei e con la vittima”, “non aveva definito lui il luogo e l’orario dell’incontro”, “se avesse voluto uccidere il Barrionuevo Diaz lo avrebbe colpito direttamente alla testa e non al torace e avrebbe individuato tempo e luogo più appropriati per l’aggressione (non
certo in pieno giorno e nelle vicinanze di un bar)” e infine “era stato arrestato in una stazione di servizio mentre riforniva l’auto di benzina, a dimostrazione del fatto che in alcun modo aveva messo in conto di doversi dare alla fuga e, quindi, di volere commettere un omicidio”. Per la Corte, “elementi sintomatici dell’agire di un soggetto che non aveva voluto ideare ed eseguire un progetto criminoso di tale gravità”.
E ancora: “anche a voler inquadrare i fatti narrati alla stregua della ‘preordinazione’, essi non potevano essere sufficienti ad integrare l’aggravante della premeditazione, implicante il radicamento e la persistenza costante dell’intento criminoso, per un lasso di tempo apprezzabile, nella psiche dell’autore del reato”.
Il caso, ora, sarà discusso dalla Corte d’Assise di Appello di Milano che dovrà pronunciare un nuovo giudizio limitatamente alla circostanza aggravante della premeditazione. L’udienza è ancora da fissare. L’imputato è assistito dall’avvocato Corrado Limentani del Foro di Milano.
Sara Pizzorni