Stragi di Sumy e Gaza e noi indifferenti
La Pasqua ci dia una scossa
Caro Direttore,
siamo entrati nella Settimana Santa con due notizie terribili: a Sumy, in Ucraina, un attacco missilistico ha causato decine di vittime civili mentre si recavano in chiesa per la Domenica delle Palme; a Gaza City, un raid ha colpito un ospedale, provocando morti e feriti tra i pazienti e il personale sanitario. Le ennesime tragedie, in una lunga, infinita sequenza di morte, violenza, distruzione.
Davanti a tutto questo, provo un senso misto di impotenza, indignazione e vergogna. Vergogna anche per me stesso, per noi, che sembriamo quasi assuefatti. Come se ci fossimo anestetizzati. Le bombe, i bambini sotto le macerie, i profughi dispersi nel Mediterraneo: tutto ci arriva addosso, eppure troppo spesso non ci scuote più. Così come le situazioni di sofferenza e disagio che vediamo anche nelle nostre città.
Mi chiedo: siamo diventati una società che non prova più dolore? O forse abbiamo normalizzato il dolore, riuscendo a comprenderlo davvero solo quando colpisce noi o i nostri cari?
In questi giorni in cui si celebra la Pasqua, con il suo messaggio di rinascita e speranza, sento ancora più forte questo contrasto. La Pasqua parla di luce che vince sulle tenebre. E io vedo intorno a me troppa rassegnazione. Troppa solitudine.
E mi chiedo ancora: siamo anche un po’ complici, in tutto questo? C’è qualcosa che possiamo fare?
Come cittadino italiano ed europeo, a volte mi sento parte di una collettività che professa valori fondamentali – la pace, il diritto, la solidarietà – ma che fatica ad applicarli con coerenza. Siamo giustamente accanto all’Ucraina, riconoscendo che c’è un aggredito e un aggressore. Ma restiamo troppo spesso in silenzio davanti a ciò che accade a Gaza, dove la risposta a un attentato orribile è diventata una guerra senza pietà. Una guerra che travolge tutto: bambini, ospedali, campi profughi. E con essa, anche la nostra credibilità e un altro pezzo della nostra anima.
Le parole del Cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, pronunciate durante la sua visita a Gaza, risuonano forti: “La situazione è drammatica, catastrofica e vergognosa.”
Ma queste parole ci interrogano. Perché, mentre affermiamo i valori della giustizia e dei diritti umani, lasciamo che il nostro silenzio copra le violazioni più gravi. Così come ci accade quando chiudiamo gli occhi di fronte ai migranti che muoiono in mare, o costruiamo muri per tenerli lontani, mentre continuiamo a rimandare ogni passo verso un’Europa capace di difendere davvero la pace, anche con la forza della sua unità politica e istituzionale.
Eppure, è proprio in questo momento che non dobbiamo arrenderci. Serve reagire. Ripartire dal dolore, ma anche dalla speranza.
Spesso, davanti alle nostre incoerenze, ai nostri errori, alla distanza tra i valori che proclamiamo e la realtà che costruiamo, la tentazione è quella di buttare via tutto, di cedere al disincanto, di dire: “non vale la pena, tanto è tutto marcio.” Ma non avremo mai una società perfetta, perché gli esseri umani non lo sono. Non cancelleremo mai del tutto l’ipocrisia, il doppio standard, la debolezza.
Quello che possiamo – e dobbiamo – fare è accettare le nostre imperfezioni senza esserne paralizzati, e impegnarci per cambiare ciò che possiamo cambiare. Anche nel piccolo. Anche nel quotidiano.
Pasqua ci ricorda che la luce può tornare anche dopo la notte più buia. E che la rinascita è possibile, ma non è mai automatica. Va cercata, voluta, costruita.
Informarsi, confrontarsi, pretendere che le istituzioni siano più coraggiose, esercitando il nostro diritto-dovere di partecipazione, anche attraverso il voto. Che l’Europa abbia voce, che la pace non sia solo un’idea o un’aspirazione, ma una concreta realtà politica, portata avanti ogni giorno.
L’anno scorso, due voci autorevoli della Chiesa – il Cardinale Zuppi e Monsignor Crociata – hanno scritto una lettera all’Europa che si apriva con questa domanda: “Che ruolo vuoi giocare, Europa, nel mondo?”
È una domanda rivolta all’Unione, certo. Ma in fondo è anche una domanda per ciascuno di noi. Perché, come cittadini, siamo chiamati a scegliere: che parte vogliamo avere in questa storia, che è anche la nostra storia?
Quel senso di impotenza e di rassegnazione non può essere la conclusione. Dobbiamo impegnarci, ognuno nel nostro piccolo, per scuoterci reciprocamente dal sonnambulismo in cui rischiamo di sprofondare.
Possiamo ancora scegliere: se rassegnarci al disincanto, o provare ad avere fiducia. Una fiducia fragile, certo. Ma possibile.
E in fondo, è anche questo il significato della Pasqua.