Cultura

Marzio Manfredini, eroe cremonese
nella disfatta della guerra d'Eritrea

7 dicembre 1895: 130 anni fa, la battaglia dell'Amba Alagi che pose fine alle mire colonialiste del Governo Crispi. Tra i caduti vi fu anche il militare cremonese Marzio Manfredini a cui nel 1904 venne intitolata la caserma di via Bissolati, oggi sede universitaria

di Fabrizio Superti

“Chi ricorda fra i baldi Eroi delle Ambe africane Marzio Manfredini? Chi ha mai riportato le gesta di questa meravigliosa figura di volontario cremonese?”
Cosi ci si interrogava, nell’ottobre del 1935, sulle pagine del “Regime Fascista” in merito ai cosiddetti eroi dell’Amba Alagi fra cui spiccava, appunto, il profilo del giovane ufficiale cremonese alla cui memoria dal 1904 venne intitolata la caserma posta in via Bissolati. La vicenda personale del militare si intrecciava pertanto con il tentativo dell’allora governo italiano di consolidare la sua presenza in terra africana partendo dagli insediamenti costieri acquisiti nel territorio eritreo.

LE ASPIRAZIONI COLONIALISTE DELLA GIOVANE NAZIONE ITALIANA

Una politica di evidente impronta coloniale che si accodava alla rincorsa delle potenze europee ad accaparrarsi gli immensi e sconfinati ambiti del continente nero. Un indirizzo ben definito che trovava nel Congresso di Berlino (1885) una sintesi in grado di stabilire le aree di influenza proprie delle varie nazionalità europee: una presenza inizialmente indirizzata a consolidare delle basi lungo la costa propedeutiche alla successiva penetrazione di territori fino ad allora spesso perlustrati solo da spedizioni geografiche o da missioni religiose.

L’occupazione dell’Africa, al pari di altri territori disseminati in ogni angolo del pianeta, veniva vista da ampi settori della società europea non solo come un diritto ma persino come un dovere morale; anche in Italia tale dottrina trovava largo seguito anche nel mondo intellettuale che auspicava un doveroso intervento per portare – così si pensava – la civiltà e la luce laddove persistevano barbarie e oscure tenebre. L’occidente pertanto si doveva fare carico, in un’epoca in cui l’applicazione di innumerevoli scoperte scientifiche aveva aperto incredibili scenari di sviluppo, di diradare quei luoghi dalla retrograda oscurità in cui erano ancora condannati.

Una tesi che manifestava una palese visione di superiorità della cosiddetta “razza caucasica” tenuta ad esportare un modello di civiltà che, a forza, doveva espandersi in luogo del pianeta. Una posizione che, seppur con i distinguo necessari per un’epoca lontana, trova ancora oggi non pochi proseliti nella necessità salvifica di “esportare la democrazia di stampo occidentale” anche laddove non sussistono le condizioni affinché tale impianto possa attecchire.

Le aspirazioni dell’Italia risultavano assai contenute rispetto agli appetiti ben maggiori espressi da potenze già all’epoca strutturate con sistemi industriali ed economici di particolare rilevanza; lo scarso peso italiano in ambito geopolitico consentiva al Paese di sviluppare propositi coloniali di respiro assai modesto nonostante le mire imperialiste che, specie con i governi Crispi, andavano ad interessare ampie fasce della popolazione. La conquista di territori in Africa rispondeva inoltre all’ipotesi di poter individuare un canale di sfogo per l’emigrazione italiana che all’epoca iniziava ad indirizzarsi in maniera consistente verso le località del Nord e Sud America.

Le mire coloniali italiane si indirizzavano verso la costa eritrea dove si ponevano i primi punti di attracco nei porti Assab e Massaua; consolidate le località portuali si iniziava a volgere lo sguardo verso il territorio interno finendo per scontrarsi con le autorità locali. Dopo l’eccidio di Dogali (gennaio del 1887), dove le truppe italiane subivano un pesante rovescio, l’avanzata italiana si arrestava fino a giungere alla stesura di un trattato, stilato nella località di Uccialli nel maggio del ’89, in cui si definivano gli accordi con l’imperatore abissino Menelik che, secondo fonti leggendarie, risultava erede della mitica regina di Saba.

L’ILLUSIONE DI AVER TROVATO UN ALLEATO

Il nuovo imperatore era riuscito ad imporsi rispetto agli altri notabili etiopi (ras) grazie, pare, proprio all’influenza esercitata a suo favore dagli emissari inviati in loco dalle autorità italiane.
Le speranze di quest’ultime di poter esercitare una sorta di protettorato sull’Etiopia s’infrangevano nella controversia sorta in merito alla diversa interpretazione dell’articolo 17 del Trattato. Nella traduzione amarica del testo il ruolo dell’Italia risultava confinato in una blanda linea preferenziale senza però intaccare la possibilità di Menelik di sviluppare accordi con altre potenze europee. La Francia e la Russia, nel contempo, si inserivano anch’esse nel gioco diplomatico teso a contrastare la presenza italiana nel Corno d’Africa; le truppe di Menelik e degli altri ras etiopi potevano usufruire, secondo fonti italiane, di armi moderne che provenivano, tramite strani commerci illegali, da località riconducibili ai Paesi concorrenti.

La presenza militare italiana si consolidava ma stante anche la distanza considerevole con la madrepatria risultava di difficile implementazione; l’impegno coloniale iniziava ad assorbire importanti risorse del bilancio statale senza che ne derivasse un vantaggio economico di pari proporzioni.

IL COLONNELLO BARATIERI E IL SUO PASSAGGIO A CREMONA

Nel periodo dei governi di Francesco Crispi la politica coloniale si muoveva verso una accelerazione nel contrasto all’imperatore abissino; agli inizi degli anni Novanta assurgeva ad un ruolo di progressiva importanza la figura di Oreste Baratieri, giovane garibaldino che poi aveva intrapreso la carriera militare congiunta a quella politica. La sua nomina a governatore e responsabile militare della colonia gli conferiva un prestigio tale da renderlo uno dei personaggi più in vista del Paese.

Nel corso della sua professione si era incrociato anche con la città di Cremona in quanto nel 1886, assumendo il grado di colonnello, gli veniva assegnato il comando dei bersaglieri di stanza a Cremona; in quell’occasione stringeva una solida amicizia con il vescovo Bonomelli che non veniva meno neanche quando l’alto ufficiale compiva missioni militari in Africa.

In procinto di imbarcarsi da Napoli riceveva una missiva dal presule cremonese che ben rispecchiava le sue aperture, poco diffuse nella chiesa dell’epoca nei confronti del potere civile.
Il vescovo Bonomelli indirizzava infatti al militare parole di vicinanza per la prossima spedizione, prevista nel novembre del 1887, in cui si augurava che gettata l’ancora a Massaua, “la prima colonia che l’Italia, rifatta Nazione, ha fondato e bagnato con il sangue dei suoi figli, Dio, il buon Dio vi accompagni sempre e ovunque, benedica ogni loro impresa e se sui suoi passi troverà il nemico, lo volga in fuga e lo disperga come la polvere del deserto. La guerra non dovrebbe aver luogo in terra perché tutti siamo fratelli, ma pure è necessaria alcune volte e, purtroppo, le grandi fasi della civiltà e le vie del progresso sono aperte dal ferro e irrorate dal sangue. E’ una legge provvidenziale anche questa, e amo sperare che il soldato italiano, il quale porta sulla sua bandiera la bianca croce di Savoia, rammenterà sempre che quella è segno di vittoria, emblema di civiltà vera, di santa fratellanza”.

I successi militari riportati da Baratieri all’inizio del 1895 suscitavano in Italia un sentimento di indescrivibile euforia; l’avanzata in territorio etiope delle truppe al suo comando lasciavano presagire un prossimo sfaldamento delle linee avversarie. Questo risultava uno dei primi conflitti seguiti con attenzione dalla stampa attraverso gli inviati che si muovevano al seguito delle truppe e fra questi si segnalava l’attività del corrispondente del Corriere della Sera, Adolfo Rossi, in grado di fornire dettagliati resoconti sulle operazioni militari quanto sulla realtà abissina.

Avendo stabilizzato il fronte e consolidato i territori interni, il Governatore rientrava sbarcando a Brindisi, in un Paese pronto ad acclamarlo come un eroe nazionale; accolto con entusiasmo presso la Casa Reale e la Camera dei Deputati iniziava un tour in varie città dove veniva reclamato come ospite d’onore nei banchetti predisposti in suo omaggio. Nel frattempo iniziavano a circolare voci secondo cui il suo rientro in Italia in realtà si era necessario anche per richiedere con forza nuovi investimenti tanto in uomini che in logistica di supporto.
Per sconfiggere definitivamente Menelik sarebbero serviti, a seconda dei calcoli predisposti, almeno 20.000 militari e dieci milioni di investimenti. Celebre la frase che pronunciò: “datemi dieci milioni e vi porterò Menelik incatenato per le vie di Roma”.

In realtà le esigue finanze dello Stato non consentivano un ulteriore sforzo per accondiscendere alle richieste del Governatore che verso la metà di settembre rientrava nella colonia. Da fonti inglesi si segnalava intanto che l’imperatore etiope stava rinsaldando le sue forze per riprendersi i territori perduti; territori che per le forze italiane iniziavano a manifestarsi difficili da conservare in quanto le considerevoli distanze fra gli avamposti e la costa rendevano complesse le operazioni di rifornimento e supporto militare.

L’EROE DELL’AMBA ALAGI: MARZIO MANFREDINI

Fra coloro che erano stati inviati in uno dei territori più avanzati del fronte italiano spiccava la figura di un cittadino cremonese, Marzio Manfredini, nato il 24 febbraio 1866, figlio di Vitruvio, medico chirurgo attivo in Cremona, e fin da giovane indirizzato presso la Scuola d’Applicazione d’Artiglieria di Torino dove sortiva con il grado di sottotenente; già a partire dal 1892 il giovane ufficiale, nel frattempo promosso tenente, inoltrava richiesta per essere aggregato ad una spedizione militare diretta verso il Corno d’Africa dove poteva sviluppare le tecniche di tiro sulle alture che caratterizzavano il territorio eritreo.

In occasione delle battaglie di Adigrat e di Agordat in cui l’esercito italiano operava una considerevole penetrazione nel territorio etiope, il Manfredini si distingueva per le azioni condotte tanto da conseguire una medaglia di bronzo al valor militare. I suoi sogni di gloria s’infrangevano in una epica giornata di dicembre del ’95 in cui le truppe abissine decidevano di muovere all’assalto delle difese italiane. Il suo nome sarà iscritto fra i cosiddetti “eroi dell’Amba Alagi”, il luogo dove si consumava lo scontro fra le due formazioni in campo.

La battaglia dell’Amba Alagi, uno dei presidi italiani più avanzati in terra etiope, iniziava alle prime luci dell’alba del 7 dicembre 1895; alle prime scaramucce faceva ben resto seguito la discesa in campo dei due schieramenti che ben evidenziavano la sproporzione delle forze in campo.
Le truppe agli ordini dei ras Mangascià e Alula assommavano, infatti, ad oltre ottomila effettivi a cui si contrapponevano circa milleduecento soldati italiani; una sproporzione che neppure la miglior posizione logistica poteva compensare e che ben presto vedeva i militari italiani assaliti da ogni posizione. Perse le speranze di poter essere soccorsi dal sopraggiungere di truppe amiche, i soldati impiegavano gli avversari fino all’estremo delle forze.

I resoconti della giornata riportavano che la batteria di tiro agli ordini del Manfredini si distingueva per abilità nel contenere gli assalti degli abissini che, nonostante ciò, procedevano imperterriti verso le posizioni italiane.

Un resoconto della difficile giornata veniva riportato dal Regime Fascista dell’ottobre del 1935 con enfasi retorica:

“(…) quale comandante (il Manfredini) di una sezione d’artiglieria da montagna, assegnato al Battaglione dell’eroico maggiore Toselli, doveva occupare il colle Tagorà, mentre la colonna Scioana continuava ad avanzare. Ed egli, malgrado l’incalzare tremendo del nemico, riesce con la sua calma e serenità a mantenere l’entusiasmo fra i soldati ed occupare il colle e montare la batteria.
Allorquando il maggiore Toselli, perduta la speranza di soccorsi da parte del generale Arimondi, ordina la ritirata generale a scaglioni, il momento è tragico. La strada stretta sovrasta un precipizio di 400 metri. Manfredini però resiste al violento avanzare delle truppe nemiche; la sua figura marziale è presente ovunque occorra coraggio, e cerca di arginare con la batteria la massa enorme dei nemici.
La sezione viene sopraffatta e sta per cadere nelle mani degli avversari quando Manfredini, piuttosto di rimanere vittima di quei barbari, ordina ai suoi soldati di rovesciare i pezzi ed ogni altra scorta nel precipizio; poi impugnato un fucile e seguito da pochi superstiti si getta avanti e cade crivellato di colpi. E il nome del tenente Manfredini fregia oggi la caserma del 3° Artiglieria di Corpo d’Armata.”

Fra gli scoscesi dirupi di quella terra lontana s’infrangevano pertanto i sogni di gloria del giovane militare cremonese che, corrispondendo in precedenza con i familiari, aveva espresso i timori per la propria incolumità.

Alla fine della battaglia le prime stime parlavano di circa 570 militari deceduti ed un numero pari era riuscito invece a ritirarsi dal luogo della contesa.
La notizia dei fatti accaduti ad Amba Alagi veniva accolta dalla Camera dei deputati nella mattinata del 9 dicembre fra lo sconcerto dei parlamentari. Il ministro degli Affari Esteri Alberto Blanc ed il collega Stanislao Mocenni, a capo del Dicastero della Guerra, erano attorniati dai parlamentari che chiedevano maggiori informazioni in merito ad un avvenimento ritenuto inspiegabile e che minava l’immagine di una presenza militare consolidata e garantita. L’assenza del Presidente del Consiglio Crispi, impedito da un malanno, rendeva ancor più surreale il clima in cui le opposizioni accentuavano il loro contrasto rispetto ad una situazione che si profilava ben difforme da quanto illustrato per mesi dai banchi del governo.

Un brusco risveglio che poneva, infatti, grosse incognite sulla capacità delle forze italiane di fronteggiare un avversario a lungo sottostimato e ritenuto, da incaute fonti, prossimo alla disgregazione.

Il drammatico episodio di Amba Alagi rappresentava in realtà un triste campanello d’allarme che già prefigurava lo scenario della disfatta di Adua (1 marzo 1896) dove le truppe italiane venivano travolte, in campo aperto, dagli abissini ponendo fine alle velleità di conquista a lungo agognate. Una pesante sconfitta che determinava la fine politica di Francesco Crispi e il tramonto di ogni aspirazione ad assurgere ad un ruolo pari nell’assise europeo.

 

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