Il Natale delle chiese sommerse
dal Po tra Cremonese e Parmense
Tra storia, mistero e leggenda, per Natale chissà se torneranno a suonare le campane delle chiese sommerse dal Grande fiume tra Cremonese e Parmense? Materialmente, di certo, no, essendo state “spazzate via” dalle acque del Po. Mal nel cuore e nell’animo degli uomini e delle donne del Po, il suono potrebbe essere intenso e profondo, lungo quel fiume da vivere in silenzio, concedendosi un momento di pace e di riflessione, riscoprendo quella storia di cui il fiume stesso è testimone. Storia che è celata e custodita tra l’una e l’altra riva e che, proprio in questi giorni che portano al Natale potrebbe rivivere.
STAGNO DI ROCCABIANCA E LA LEGGENDA
A Stagno di Roccabianca, nel Parmense, proprio di fronte al borgo casalasco di Motta Baluffi, lo scrigno della storia è custode di una meravigliosa leggenda. Che prende forma, ancora una volta, dalla storia. Infatti, a Stagno due volte il Po, come accaduto nel caso della vicina Polesine Parmense (in passato Polesine di San Vito) si è portato via, nel corso dei secoli, due chiese e da questi fatti la storia si è mescolata, in modo mirabile, con la leggenda.
Leggenda secondo la quale per Natale suonano le campane sommerse nel fiume. Ne ha sempre parlato la gente del posto; ne parla e lo descrive diffusamente nientemeno che il padre dell’etnologia parmigiana, l’indimenticato don Enrico Dall’Olio nel suo “Leggende Parmigiane”, straordinaria, preziosissima e speciale raccolta di antiche fiabe.
DAL MITO ALLA STORIA ANTICA
Una leggenda, come detto, e come spesso accade, nasce dalla storia. Storia che, per Stagno Parmense, getta le sue radici già all’epoca romana.
Infatti nel 1841, durante i lavori di realizzazione dell’argine maestro, vennero alla luce numerosi sepolcreti composti da grossi mattoni coperti con embrici e contenenti ossa umane con il capo rivolto verso oriente. Dettaglio, questo, tipico dell’usanza pagana.
Oltre alle ossa, anche lucerne, ampolle, armille, fibule, vasi, anelli, spille, medaglie e monete d’argento e di rame di imperatori romani del periodo compreso tra il 37 dopo Cristo e il 360, vale a dire da Caligola e Costanzo II.
I RITROVAMENTI ARCHEOLOGICI
Anticamente il cimitero era situato nel quartiere Motta, davanti ad una cappellina dedicata alla Beata Vergine di Caravaggio, sorta all’inizio del secolo XIX sull’area di un’altra cappella dedicata invece alla Beata Vergine della Salute che, per forma ed antichità, era ritenuta dalla popolazione un tempietto romano.
Durante i lavori di costruzione di un altro argine (voluto per difendere Stagno dalla continua erosione creata dal fiume) datati 1847, vennero inoltre alla luce un priapo in bronzo e monete degli imperatori Caligola, Massenzio, Costantino e Arcadio.
Nel 1889, infine, durante lavori in località Gattuzzo, tra la Brenova e il cavo Rigosa, furono scoperti altri tre sepolcreti simili ai precedenti. Scoperte importanti che tra l’altro dimostrano che il Grande fiume, pur tra i mutamenti del suo corso, non raggiunse mai la linea dei sepolcreti ritrovati e, dal momento che i romani per consuetudine seppellivano i loro defunti in località sicure a settentrione dell’abitato, è facile capire che il popolo cui quelle tombe appartenevano doveva vivere nella zona di Tolarolo e Rezinoldo, dove sorge l’odierna Roccabianca.
L’opera di bonifica attuata dal console Emilio Scauro dall’Appennino al Po intorno al 118 a.C. e l realizzazione dell’arteria stradale romana diretta a collegare Parma a Cremona (che in origine non seguiva un tracciato rettilineo) contribuì a mutare il volto di una zona che, da palustre e silvestre, vide fiorire una ordinata coltura agricola.
LE PRIME FONTI MEDIEVALI
Il primo accenno ufficiale al paese si trova in un atto del 17 aprile 894 con il quale l’imperatore tedesco Arnolfo confermava al vescovo parmense Guibodo il possesso di vasti domini e, tra questi, un lotto di terreno a Soragna che era confinante da un lato, con i boschi di Stagno.
Dal 1477 Stagno fece parte dei territori soggetti ai Pallavicino e tale rimase fino alla scomparsa dello Stato di Busseto, fatta eccezione per un breve periodo di supremazia dei Rossi (che già avevano dominato in precedenza) che nel 1481 si impadronirono del castello per servirsene con quelli di Roccabianca e i Torricella contro i Pallavicino.
STAGNO E IL PO, UN TERRITORIO DIVISO
Stagno, il cui territorio inframmezzato dal Po, si estendeva sopra una vasta superficie compresa tra il piaggione (Piardone), San Daniele Po, Torricella del Pizzo nel cremonese, e Tolarolo e Pieveottoville di qua dal Po, godeva un tempo di un certo benessere. Le terre oltre il fiume, che la Camera Ducale aveva concesso a livello a molti abitanti di Stagno, fornivano grano sufficiente a chi, attraversando mattina e sera il Po, vi si recava a coltivarle.
Agricoltura, caccia, pesca e contrabbando erano di fatto le principali attività del paesino che fu per altro sede di Comune fino al 1806.
LE PRIME CHIESE DI STAGNO
Per quanto riguarda gli edifici sacri, la già citata cappella della Beata Vergine della Salute fu senza dubbio il primo edificio sacro sorto a Stagno. Le antiche fonti non accennano all’esistenza in luogo di una chiesa, forse perché altre erano poste nei paesi vicini come Polesine dè Manfredi (luogo inghiottito dal Po con gran parte di Stagno).
Nel 1796 i terreni parrocchiali che si trovavano sulla sponda sinistra del Po passarono alla giurisdizione delle chiese cremonesi di Sommo Con Porto, San Daniele Po, Solarolo Monasterolo, Motta Baluffi e Torricella del Pizzo.
LE DUE CHIESE DISTRUTTE DAL FIUME
Come anticipato due chiese parrocchiali sono state distrutte. La prima, angusta e cadente, messa alla prova dal fiume, nel 1675 fu demolita per far posto ad una più ampia e decorosa. Dell’iniziativa si fecero promotori, il 13 marzo 1675 gli uomini e i deputati della comunità insieme al prevosto don Aurelio Scutari (prevosto a Stagno dal 1669 al 1693), ricordato come parroco esemplare, amato e stimato dalla sua gente per la bontà e le chiare virtù sacerdotali.
Don Scutari, che nella realizzazione della chiesa ebbe appunto la capacità di coinvolgere uomini e deputati della comunità ed ebbe la consolazione di veder sorgere il nuovo tempio, per la realizzazione del quale si prese a modello la vicina chiesa di Roccabianca.
I lavori incontrarono dei momenti di sospensione per mancanza di mezzi economici ma, alla fine, vennero ultimati (e furono affidati al capomastro cremonese Giannantonio Avanzini) con il sacro edificio provvisto anche di organo, orologio e decorazioni. Ad abbellire la chiesa fu chiamato nientemeno che Ferdinando Galli Bibiena morto il quale nel 1743 l’opera fu ultimata dal figlio del celebre pittore.
La chiesa, che nel 1800 distava circa un chilometro dal Po, non durò molto e infatti crollò tra l’ottobre e il novembre 1846 per corrosione delle acque del fiume Po.
Alla fine gli abitanti di Stagno rimasero senza chiesa per circa vent’anni e la nuova parrocchiale, quella attuale, fu realizzata tra il 1863 ed il 1864 e venne aperta al culto nel 1865. Oggetto, per altro, di recenti ed importanti restauri, il sacro edificio conserva memorie tangibili della precedente chiesa distrutta dal fiume, come la pala dell’altare maggiore, raffigurante i patroni, i santi Cipriano e Giustina, realizzata da Ferdinando Galli Bibiena (1657-1743), un “Battesimo di Nostro Signore” (olio su tela d’ignoto pittore del secolo XVII) ed un bel confessionale in noce intagliato (di fine secolo XVII) con quattro colonne a spirale che sostengono una trabeazione sulla quale sono adattate cinque statuine che decoravano un antico pulpito, raffiguranti gli Evangelisti e Cristo alla colonna.
LA NASCITA DELLA LEGGENDA
Da queste vicende storiche, legate alle chiese (in particolare la seconda) “divorate” dal fiume è nata la leggenda popolare, poi ripresa e scritta da don Enrico Dall’Olio (scomparso nel 2014 all’età di 85 anni) che, tra le altre cose, ha avuto lo straordinario merito di aver raccolto e trascritto, appunto, i racconti popolari, mettendoci il cuore, l’intelligenza, la pazienza di saper studiare, conservare e divulgare le tradizioni locali, i racconti, sia nelle valli dell’Appennino che nelle lande della pianura.
Ha avuto, don Dall’Olio, la grande capacità di raccogliere le testimonianze orali degli anziani, conservandole attraverso la scrittura, lasciandole così ai posteri, aggiungendoci l’amore che ha sempre avuto per le sue e nostre terre e, in particolare, per quelle valli che percorse in lungo e in largo durante la sua instancabile e preziosa missione di parroco, sempre in mezzo alla gente, e di custode degli antichi saperi.
Lui, figlio di contadini della Bassa, parroco in villaggi di collina e di montagna, con i suoi libri ha dato vita a veri e propri atti d’amore per le terre del fiume e dei monti, con uno stile semplice e profondo al tempo stesso, senz’altro inarrivabile. “Le leggende – scriveva lo stesso don Enrico – sono ‘piacevoli creature’ della fantasia popolare, o se volete ‘delicati ricami’ della storia di ogni paese, affidate molte di essere alla memoria dei più anziani. Per l’amore che nutro verso la mia terra, mi sono avventurato in questo affascinante mondo dell’immaginario, ho messo piede in questo pianeta dove la fantasia sovrana suscita utili riflessioni. Sono ‘bisciole’ di sapienza antica con il sapore e la fragranza inconfondibile della nostra terra parmigiana, incamminate come del resto tante altre tradizioni verso la dispersione e l’oblio; le ho radunate in questo libro, convinto di essere di fronte ad un bene culturale quanto mai prezioso da custodire gelosamente”.
“Sono queste – scriveva ancora – le principali motivazioni a sostegno delle ‘Leggende Parmigiane’, curiose ‘passeggiate’ in un mondo popolato di diavoli e angeli, di guerrieri, di re e regine, di fate e di folletti, di streghe e di incantesimi che riconducono spesso a credenze remote, ad eventi storici, a fenomeni naturali, a fatti straordinari, arricchiti ulteriormente dalla fantasia popolare.
Trasmesse fino a noi con un linguaggio semplice e piano, conforme allo spirito e al modo di vivere dei tempi lontani, permeati da fatica e povertà, comunque ricche di misterioso fascino, grazie anche all’abilità di chi le annunciava da una stalla all’altra nelle lunghe serate d’inverno; infatti quasi ogni paese dell’Appennino aveva i suoi cantastorie, retribuiti per ogni seduta con un fiasco di vino ed una micca di pane”.
Profondo, quindi, il messaggio di don Enrico che, rivolgendosi ai giovani “rivolti al futuro con una entusiastica e spesso affannosa ricerca della novità” e agli adulti “coinvolti nell’inarrestabile corsa verso il domani” evidenzia come le leggende, tra e loro pieghe, sempre annunciate quasi sottovoce e in modo suggestivo tendono a un messaggio di elevato spessore, un monito valido in ogni tempo, per tutti, nessuno escluso.
LA FIABA DELLE CAMPANE SOMMERSE
Venendo alla leggenda nata a Stagno, relativa alle campane sommerse in Po che suonano per Natale, ecco che prendendo spunto dalla storia delle chiese distrutte dal fiume, e dal fatto che il paese per almeno vent’anni rimase senza una propria chiesa, la fantasia popolare ha portato a raccontare che in una remota vigilia di Natale la furia delle acque sconvolse Stagno portando rovina e lutti al punto che anche l’Angelo che, sempre secondo la credenza popolare, veglia su tutte le chiese del mondo, atterrito abbandonò la guglia del campanile per salire verso il cielo cercando un luogo più sicuro.
Ancora una volta il grande e vecchio Eridano, come accaduto in innumerevoli occasioni, aveva dimostrato il suo incontrastato dominio sulle sue terre, divorando uomini e cose, stendendo un ampio manto melmoso e solo poche persone in quella occasione si salvarono divenendo testimoni del fatto che la bella chiesa e la case circostanti si inabissarono in Po.
L’Angelo che sospeso a mezz’aria aveva a sua volta assistito alla catastrofe, andò oltre le nubi per poi prostrarsi davanti a Dio raccontandogli (anche se non c’era bisogno) quello che era accaduto, presentandogli le sofferenze di quella povera gente di campagna, vittime della furia del fiume che li aveva lasciati senza casa e senza chiesa e senza il suono delle campane che scandivano le loro giornate, il trascorrere del tempo, accompagnando le gioie e i dolori degli uomini. Erano, insomma, parte integrante e importante della loro vita e l’accaduto li aveva a maggior ragione sconvolti. Inizialmente non pareva poterci essere rimedio e, alla gente, non erano rimasti che tristezza e sconforto, pianto e rassegnazione.
Nonostante questo il popolo del fiume si diede subito da fare per recuperare e sgomberare i materiali e gli oggetti disseminati un po’ ovunque dalla furia del fiume. I pochi superstiti ricordarono che quello che il giorno di Natale e, in modo sublime e misterioso, si ritrovarono uniti, nell’ora in cui in passato assistevano alla messa, sulle rive del fiume, laddove in precedenza si trovava la loro amata chiesetta.
Presi dalla commozione si inginocchiarono e non lasciarono spazio ad alcun moto di rabbia ma, anzi, elevarono a Dio le preghiere e i canti della tradizione natalizia, baciando quella terra che aveva visto il sacrificio dei loro fratelli. D’improvviso le acque divennero trasparenti e il sole, più splendente che mai, illuminò il fondo del Po dove, come per incanto, apparvero la chiesa col suo campanile e le case, col silenzio e lo stupore delle persone che venne “rotto” da uno scampanio soave e dolcissimo, un concerto così melodioso che mai prima d’ora si era sentito.
L’autore di tutto questo non poteva che essere l’Angelo inviato dal Signore a scuotere le campane per alleviare il dolore della gente, infondendo loro nuovo coraggio e rinnovata speranza, lasciandosi alle spalle le prove date dalla sventura, animati invece dalla forza e dalla tenacia necessarie per riprendere subito a riedificare il loro villaggio e la loro chiesa, memori del fatto che con la fede, la speranza, il coraggio e la carità si superano i dolori e le sventure.
Una fiaba bellissima, nata dalla storia, contenente un grande messaggio, come accade per tutti i migliori racconti popolari. Chissà che quest’anno, la gente del fiume, da Polesine Parmense a Stagno, passando per Brancere, per Cella, per Soarza e per tutti quei centri che, nei secoli, hanno visto le loro chiese distrutte dal fiume, il giorno di Natale non trovino un attimo per recarsi sul fiume, per recitare una preghiera, accendere un lume ed intonare un canto, da una sponda all’altra.
DA STAGNO A BRANCERE
Alle campane delle chiese sommerse di Stagno potrebbero rispondere, più verso Cremona, quelle della chiesa sommersa di Brancere, nel Cremonese.
Anche qui sono almeno due le chiese “spazzate” via, nel tempo, dal Grande fiume. Come si può leggere anche sul sito della parrocchia di Stagno Lombardo, grazie alle memorie lasciate da don Remo Caraffini, “rispolverate” e valorizzate dall’attuale parroco don Pierluigi Vei, nel 1756 l’antica chiesa del Real Ordine Costantiniano o Costantinopoliano della Steccata di Parma era costruita nei pressi di San Giuliano/Soarza e, a causa dell’inondazione del Po di quell’anno, venne abbandonata e finì per essere distrutta.
LE GRANDI ALLUVIONI DEL PO
Sempre nelle memorie di don Caraffini si rileva che nel 1801 un’altra grande alluvione allagò la chiesa rimanendovi per 22 giorni. A causa di quel fatto, come emerge dalle memorie dell’arciprete dell’epoca, tre matrimoni furono per forza di cose celebrati nella chiesa di “Stagno Pagliaro” a causa di una grave e terribile inondazione iniziata l’11 novembre del 1801 che allagò la chiesa raggiungendo l’altezza di “quattro braccia e più”, rimanendovi appunto per 22 giorni.
Fu, quello, un anno terribile: infatti in conseguenza della Campagna d ’Italia di Napoleone contro l’esercito austriaco che culminò con la vittoria francese a Marengo, nel giugno 1800, agricoltura e igiene erano state lasciate in stato di incuria, provocando una grave carestia cui seguì una ancor più terribile epidemia di vaiolo.
Cinque anni più tardi di nuovo il Po sommerse il “nuovo” cimitero benedetto nel 1791 rendendo inservibili chiesa e canonica. Il territorio di Brancere, come altri vicini dell’Emilia Romagna subì, nel corso del tempo, i pesanti effetti delle erosioni operate dal Grande fiume.
Nel 1813 una nuova chiesa fu costruita, con annessi cimitero e casa parrocchiale, oltre l’argine maestro, grazie alla donazione dell’avvocato Coppini, proprietario della Cascina Rondanina, su disegno dell’architetto cremonese Domenico Voghera (fratello del più famoso architetto Luigi) e venne consacrata il 2 maggio 1813, con asse della chiesa in direzione Nord-Sud e facciata rivolta a Sud.
Nel 1867 la chiesa subì importanti lavori ma solo un anno più tardi, nel 1868, fu colpita da una nuova inondazione del Po con le acque che si ritirarono solo sei giorni dopo. In quello stesso anno venne definitivamente soppresso il Comune di Brancere, inglobato in quello di Stagno Lombardo.
Tra le inondazioni che colpirono il paese e i suoi edifici sacri, da ricordare anche quelle del 1801, 1806, 1872, 1917 e 1926, ma anche quella del 1833. A quest’ultima è legato il quadro miracoloso del “Nazareno” (che si conserva in parrocchia) accompagnato anche dalle annotazioni autografe del parroco dell’epoca che parla di tre miracoli e ne evidenzia la storia.
A riguardo, in quaderni dell’Archivio Parrocchiale, don Remo Caraffini trascrive una nota del Parroco del 1870: “Nell’anno 1833 il fiume Po ingoiò varie possessioni che si trovavano in prossimità al fiume. Confinante con queste vi era anche quella del Conte Prosperi Tedeschi Baldini, di Piacenza, proprietario della cascina Ferrara. Uomo molto religioso fece un voto implorando che venisse risparmiata la sua ed essendo stata di fatto preservata la sua terra con la sua cascina, soddisfece al voto fatto facendo dipingere un artistico quadro rappresentante la Sacra Immagine di Gesù Nazareno, riscattata dai Padri Scapolari dalle mani dei Barbari Mori e Maomettani nella città di Fez in Africa [Marocco] e lo donò alla chiesa di Brancere e lo fece collocare sull’altare di S.Antonio di Padova nel giorno 15 di Settembre del 1833, giorno di domenica, in cui venne benedetta la Sacra Immagine, che ancora è lievito fermentatore di vita morale e religiosa in questa popolazione rurale”.
LE ROVINE RIEMERSE NEL 2022
In occasione della magra storica del 2022 sono riemerse antiche mura che, chissà, potevano anche essere quelle della vecchia chiesa di Brancere, ma questo è destinato a restare un mistero. Si tratta di rovine che, chi scrive queste righe, ha avuto la possibilità di visitare, in rigoroso e doveroso silenzio, grazie alla guida preziosa di Tommaso Mazzeo, esperto conoscitore del fiume ed appassionato di storia del fiume e del territorio, durante la grande magra del 2022.
Qui le ipotesi hanno fatto emergere anche un’altra possibilità, secondo la quale potrebbero trattarsi dei resti di Vacomare, antico borgo scomparso da secoli, totalmente eroso dal Po, in cui sorgeva uno Xenodochio (vale a dire una struttura di appoggio ai viaggi nel Medioevo, adibito a ospizio per pellegrini e forestieri) con chiesa intitolata a Santa Maria di Spineta. Chiesa e xenodochio di cui da tempo (come del resto del borgo) si sono perse le tracce.
Di Vacomare, della chiesa di Santa Maria di Spineta e dello Xenodochio si parla diffusamente nei libri della collana “Nelle terre dei Pallavicino” del compianto professor Carlo Soliani, insigne studioso di storia dei nostri territori, autore di importanti pubblicazioni.
In un atto del 1334, Matteo Da Segalaria, sacerdote di Parma e titolare di un beneficio nella chiesa di Pieveottoville, per incarico del vescovo di Cremona, Ugolino di San Marco, inserì nel possesso dell’ospedale di Santa Maria di Spineta, situato appunto in Vacomare, e dei relativi diritti spirituali, Antonio Riccardi di Crema, precedentemente eletto rettore e amministratore del medesimo ospedale dallo stesso vescovo mediante investitura ad anello aureo. Nel 1336, invece, Pietro Giovanni Tagliabuoi donò ai frati del Consorzio dello Spirito Santo di Cremona una pezza di terra di due pertiche, coltivata a viti, posta nel territorio di Santa Croce Oltre Po, in località Vacomare (con atto notarile firmato da Corrado Lacma).
Nel 1358 la signorina Agnesina, figlia del fu Antonio Bottioni detto “Inthocus”, legò agli stessi frati del Consorzio dello Spirito Santo di Cremona, due pezze di terra, una delle quali in località Vacomare. Altri atti relativi a terreni di Vacomare risalgono agli 1361, 1367, 1371, 1374 e 1376. E’ inoltre ceto che lo Xenodochio esisteva ancora nel 1385 e pagava all’Episcopio di Cremona il censo di “Libram unam cere nove”.
Interessante anche un atto del novembre 1458 in cui Cabrino, Galeotto, Duxino Sommi, a proprio nome ed anche a nome di Aimerico, Cristoforo e Giorgio Sommi, chiedono il rinnovo dell’investitura dei feudi ai loro antecessori, e in particolare di Pieveottoville con i relativi diritti di riscossione delle decime nei luoghi di Parasacco, Zibello, Isola Guidoni, Vacomare, Po Morto, Saliceta, Ardola di Altavilla, Isolello e Carpaneta, a Giovanni Maria Imerici di Ferrara, luogotenente di Bernardo Rossi, eletto amministratore dell’episcopio e futuro vescovo di Cremona, e a don Filippo Schelini, vicario del suddetto vescovo.
Meno probabile, ma comunque plausibile,e affascinante, la possibilità che le rovine riemerse nel 2022 possano appartenere anche ad altre località, altrettanto scomparse come Ripavetere e Campomascolo. Tutte ipotesi affascinanti, in cui storia e mistero si fondono.
STORIA, FEDE E TERRITORIO
Infine, tornando di nuovo a parlare di Brancere, borgo le cui vicende sono da sempre legate al fiume, va detto che la parrocchia fino al 1820 apparteneva alla diocesi emiliana di Fidenza. Come ricorda anche Dario Soresina nella sua “Enciclopedia Diocesana Fidentina”, nell’Oltrepò cremonese, ma nei limiti della parrocchia di Soarza, esisteva in passato un pubblico oratorio dedicato all’Ascensione di Nostro Signore, che era di ragione e di patronato dell’Ospedale della Misericordia di Cortemaggiore.
Per aderire al desiderio della popolazione, motivato dalla distanza dalla chiesa parrocchiale di Soarza, per raggiungere la quale i fedeli erano costretti a traghettare il Po (con disagi e pericoli per la loro incolumit), il vescovo diocesano monsignor Adriano Sermattei, con decreto del 16 marzo 1714, erigeva Brancere in parrocchia, scorporandola totalmente da Soarza e gli abitanti, per l’acquistata autonomia, si impegnarono a provvedere il loro paese di una nuova chiesa, di arredarla e di dotarla del necessario.
Con altro decreto con la stessa data e messo agli atti dal notaio Micheli, il vescovo Sermattei nominò il primo parroco nella persona del sacerdote don Rinaldo Ferrari e la parrocchia fu inclusa nel vicariato foraneo di Villanova sull’Arda. Tuttavia rimanevano insoluti altri problemi di carattere giurisdizionale, visto che Brancere, nettamente staccata dalla diocesi fidentina, gravitava totalmente su Cremona ed i centri cremonesi vicini.
Così, per quasi un secolo, la parrocchia fu considerata quasi un’entità a sé stante, nella quale usi e costumi si differenziavano da quelli delle parrocchie più prossime della diocesi di Fidenza. Per queste ragioni il vescovo monsignor Luigi Sanvitale, in virtù delle lettere apostoliche di papa Pio VII date in Roma il 16 febbraio 1819, con atto del 23 settembre 1820, rimise la giurisdizione spirituale di Brancere al vescovo di Cremona.
Al primo parroco don Rinaldo Ferrari fu conferito il titolo di rettore, mantenuto dai suoi successori sino al momento in cui Brancere fu annesso alla diocesi di Cremona. I successori di don Ferrari furono don Giovanni Maria Bercini che guidò la parrocchia dal 1727 al 1764, don Antonio Gambara che fu parroco dal 1764 al 1774, don Giacomo Carrara dal 1774 al 1790 (passò poi canomico a Busseto) e don Giuseppe Verdelli, parroco dal 1790 al 1820.
LE MUTAZIONI DEL CORSO DEL FIUME
Un’altra ipotesi circa l’origine delle rovine emerse nell’estate 2022 riguarda la possibilità che potesse trattarsi di resti della Cascina Ferrata. Anticamente, in quella zona, prima della costruzione delle opere di difesa idraulica risalenti al secolo scorso, il fiume aveva tre diramazioni e la morfologia del territorio, nel corso del tempo, ha subito importanti modifiche.
Le mutazioni subite dal corso del Grande fiume in passato hanno ampiamente influito anche sul destino di non pochi centri andati poi distrutti. Interessante, a riguardo, è la testimonianza di un navarolo di Casalmaggiore, Bono Giovanni Bongiovanni, che in antichi documenti, narra di quattro mutazioni del corso del Po avvenute in meno di cinquant’anni: “al principio – scrive – il corrente del Po veniva giù dietro le Brancere del Cremonese, venendo a dar dietro est di sopra la piarda de l’Ongina del Parmigiano, venendo giù dietro quella piarda sino alla Casa del Recardino sul Parmigiano, si levava poi di lì et andava a dar dal lato cremonese di sotto del Mezano del Pesso… andando giù sino alla piarda del Somma del Cremonese.
Et questo può essere da 45 anni in qua; et da quel tempo da sette o otto anni di poi, il Po fece una rotta a Soartia e si buttò verso la piarda del Pesso, et andava giù dietro la piarda un gran pezzo e poi voltava et andava a battere di sotto un poco dalla rocca di Polesino, andando giù di mano alla piarda dei Spini sil Parmigiano…A questa seconda mutatione che io ho detto, all’hora vi apparve quel Mezanino et di lì due o tre anni, venendo pure il…Po di sotto da detta rocca…andò mangiando su di mano in mano addosso a detta rocca, a tal che diede nella rocca et la portò via. Abbandonò di poi circa dieci anni detto luogo ov’era la rocca et si voltò verso il Cremonese dove va al presente…”.
La seconda mutazione di cui parla Bono Giovanni Bongiovanni è quella del 1528-1529 quando il canale maggiore del fiume si spostò più a Sud ed il coso prese una direzione diversa. Durante una piena si allontanò da Farisengo e, immessosi repentinamente nel Rebenzone, un fossato di scolo delle acque che attraversava il territorio palla vicino seguendone l’andamento. Con gli anni il vecchio alveo era stato del tutto abbandonato, al punto che gli si era dato il nome di Po Morto. Nei secoli seguenti ci furono parecchi altri e importanti mutamenti che causarono profonde modifiche ai territori emiliani e lombardi, ed ai loro abitati.
BRANCERE E SOARZA
Quando si parla di Brancere è inoltre necessario fare doveroso riferimento anche alle vicende storiche della dirimpettaia località piacentina di Soarza la cui parrocchia ebbe, in epoca remota, una propria giurisdizione che si estendeva anche all’Oltrepò cremonese, comprendendovi appunto la zona di Brancere e la sua chiesa, che allora era un semplice oratorio. Una investitura del vescovo di Cremona datata 5 aprile 1014 a favore di una famiglia soarzese di origine longobarda (che si può trovare nel “Codex diplomaticus Cremonae” dell’Astegiano) parla di un appezzamento di terreno in luogo “cum capella”: questa era probabilmente una delle numerose cappelle mariane erette dai fedeli in prossimità del Grande fiume per invocare la protezione della beata Vergine Maria dalla minaccia costante delle acque.
Il Campi, nell’Historia Ecclesiastica di Piacenza accenna tra l’altro ad una contestazione confinaria sorta tra i vescovi di Cremona e di Piacenza nel 1180, che coinvolse gli arcipreti di San Martino in Olza e di San Giuliano Piacentino, precisando che la causa fu rimessa ai rettori delle chiese di Soarza (Bernardo) e di Vidalenzo (Oddone). A Brancere esisteva un oratorio pubblico, eretto sotto il titolo dell’Ascensione di Nostro Signore, che era sussidiario della parrocchiale di Soarza.
Con decreto del 16 marzo 1714, come già anticipato, il vescovo diocesano Adriano Sermattei, accogliendo le istanze della popolazione, eresse Brancere in parrocchia, smembrando totalmente il suo territorio da quello della parrocchia piacentina di Soarza. La perdita di una ragguardevole porzione di territorio fu però largamente compensata dal Po.
Infatti, per un prolungato fenomeno di accessione verificatosi a decorrere da inizio Ottocento, Soarza acquisì la zona situata ad est dei cavi Morta e Fontana: una larga e profonda fascia, in buona parte boschiva, ma con vaste oasi coltivate facenti capo alle cascine Bella Venezia e Motta. Inoltre il 6 maggio 1896, il vescovo Tescari, con atto a rogito Guido Cremonini, ottenne con lettere apostoliche lo smembramento dalla parrocchia di Brancere (già rimessa nel 1820 alla giurisdizione episcopale cremonese) dell’Isola Costa e la sia aggregazione alla parrocchia di Soarza. Soarza che vantava una chiesa già intorno al Mille, poi demolita nel 1927.
Magari, tra storia, mistero e leggenda, per Natale sentiremo di nuovo il dolce suono delle campane sommerse. Magari, intorno al fiume e sul fiume, quel Bambino che viene sorriderà, come e più di prima, alla gente del Po, portando loro in dono un tempo migliore e quei valori di bontà, semplicità e umiltà di cui, oggi più che mai, si avverte l’essenziale necessità.
Paolo Panni, Eremita del Po