Cronaca

L'Europa dà scacco matto ai Talebani dell'avvocatura

In Italia vi sono 247.000 avvocati. Sono numeri del 2012 e non ne ho trovati di più recenti. Neppure sul sito del Consiglio Nazionale Forense, che evidentemente ignora il numero dei propri iscritti. Un numero enorme ed abnorme. In tutta la Francia, gli avvocati sono 40.000, meno che a Roma, Milano e Napoli messe insieme.
Ciononostante, ogni anno legioni di laureati affrontano l’esame di abilitazione per divenire avvocati, presso le varie Corti di Appello. Il numero continua ad accrescersi, anno dopo anno. Prendiamo, ad esempio, la Corte di Appello di Brescia, cui Cremona appartiene. Quando feci gli scritti io, nel lontanissimo 1968, i candidati erano poco più di una ventina. Quando, alla fine degli anni ottanta, fui nominato commissario d’esame, i candidati erano saliti a circa trecento; nel 2014 erano più di ottocento.
Per di più si tratta di un esame assai difficile e dal risultato, per quanto riguarda gli scritti, assolutamente aleatorio. E’ vero che ci sono alcuni candidati che appaiono digiuni non solo di nozioni giuridiche, ma addirittura di grammatica e sintassi. Ma ci sono anche laureati con un brillante curriculum di studi che non riescono a superare gli esami scritti.
La necessità ha fatto quindi scoprire la “via spagnola all’avvocatura”. Molti giovani sono diventati avvocati in Spagna, dove l’accesso alla professione è assai più semplice che in Italia (senza che ciò abbia comportato un particolare accrescimento nel numero degli avvocati, che è circa la metà di quello italiano). In base al principio comunitario della libera circolazione e della conseguente libertà di stabilimento, hanno poi richiesto l’iscrizione all’albo degli avvocati in Italia. In tempi più recenti, il “turismo forense” ha scelto altre mete, come la Romania ed il Belgio.
Di conseguenza, negli ultimi anni, si è accresciuto il numero degli “abogados”.
Per abogados si intendono quegli avvocati formatisi e abilitatisi in Spagna e che poi, rientrati in Italia, si sono iscritti alla parte speciale dei rispettivi albi tenuti dai singoli Ordini degli avvocati, alla stessa stregua degli altri colleghi provenienti da altre abilitazioni europee, come ad esempio quelli provenienti dal Belgio ove non esiste un esame di abilitazione alla professione forense ma solo un tirocinio continuo di tre anni, con una prova attitudinale al secondo anno, al termine del quale continuano l’attività non più come avocat stagiere, ma soltanto come avocat.
Contro gli abogados il Consiglio Nazionale Forense ha promosso una vera e propria crociata.
Eppure il fenomeno è dovuto unicamente, come si è visto, alla aleatorietà degli esami di abilitazione in Italia, nella cui organizzazione il Consiglio Nazionale Forense ha un ruolo determinante.
Il C.N.F. per porre freno a questa prassi, il 30 gennaio 2013 ha presentato un quesito pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea, sull’articolo 3 della direttiva 98/5 inerente la figura dell’avvocato stabilito: la pratica messa in opera dagli abogados italiani costituirebbe un’ipotesi di “abuso del diritto”, vietato dall’articolo 4 del Trattato UE, che riconosce alle autorità nazionali competenti (i Consigli dell’Ordine) il diritto/dovere di accertare un eventuale abuso del diritto.
Si riteneva che la prassi contestata rappresentasse una violazione della concorrenza da parte degli abogados cittadini italiani in danno degli altri avvocati che, per diventare tali, devono accedere al rituale percorso dell’esame di abilitazione.
La figura dell’avvocato stabilito (e cioè dell’avvocato che esercita in altro Stato) è stata oggetto di vari interventi; dopo un percorso difficile e tortuoso, l’esercizio della professione da uno Stato membro di origine ad uno Stato membro ospitante avveniva solo con prestazioni di servizi di tipo occasionale (direttiva del Consiglio 77/249 del 22 marzo 1977, cui è stata data attuazione nel territorio dello Stato italiano con la Legge 9 febbraio 1982 n. 31).
Ogni avvocato, infatti, era ammesso a prestare liberamente i propri servizi professionali in altro Stato europeo – cosiddetto stato ospitante – ma doveva farlo con il titolo dello Stato di origine e soltanto in via occasionale e saltuaria, poiché non era previsto, nella suddetta direttiva, il diritto di stabilirsi definitivamente nel paese ospitante. Questa attività “occasionale e saltuaria” doveva essere svolta di concerto con un avvocato del paese ospitante, osservando quindi norme e disciplina deontologica di questo paese.
Il caso concreto concerne due abogados che, già iscritti al “Colegio de Abogados” di Santa Cruz de Tenerife, avevano chiesto l’iscrizione all’Ordine di Macerata. Contro il silenzio dell’Ordine, gli interessati si rivolgevano al Consiglio Nazionale Forense.
La questione è stata risolta dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 17 luglio 2014 (sentenza “Torresi”).
La Corte di Giustizia ha stabilito che non è una pratica abusiva e non costituisce, quindi, abuso del diritto, il comportamento di un cittadino che si reca in un altro Stato membro per ottenere una qualifica professionale e poi torna in patria per esercitare la professione con il titolo acquisito all’estero. Un principio chiaro che non ammette fughe nell’applicazione e non lascia spazio al fraintendimento.
Nella sentenza, la Corte di Giustizia ha interpretato la direttiva che ha l’obbligo di facilitare l’esercizio della professione di avvocato in modo permanente, in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica. Il richiedente è tenuto a presentare il documento che provi l’iscrizione nello Stato di origine. In questa situazione, l’autorità competente dello Stato membro ospitante è tenuta a procedere all’iscrizione dell’avvocato. Rispetto ai poteri dello Stato ospitante, la direttiva ha cura di precisare che l’autorità competente può richiedere che il documento “non sia stato rilasciato prima dei tre mesi precedenti la sua presentazione. Essa dà comunicazione dell’iscrizione all’autorità competente dello Stato membro di origine”.
Escludeva, infine, la Corte di Giustizia che l’applicazione della citata direttiva potesse configurarsi un “abuso del diritto”, così come prospettato dal Consiglio Nazionale Forense.
In conclusione, l’unica soluzione per porre un freno al fenomeno degli abogados è nel numero chiuso per l’accesso alla facoltà di giurisprudenza, cui deve seguire un serio e non aleatorio sistema di accesso alla professione.
L’avvocatura non può pensare di continuare a tutelarsi con sistemi corporativi, cui la Corte di Giustizia ha dato una nuova picconata, sulla base del principio comunitario della libera concorrenza.

Antonino Rizzo

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