Cronaca

"Operato senza biopsia". Ma
"era a rischio" per sindrome rara

Il paziente era stato operato 16 volte
L'ex primario Mario Martinotti a processo

Il dottor Martinotti insieme ai suoi avvocati

Di nuovo la parola ai consulenti nel processo contro l’ex primario del reparto di Chirurgia dell’ospedale di Cremona Mario Martinotti, 65 anni, di Pavia, accusato di quattro casi di omicidi colposi. Per il pm Vitina Pinto, Martinotti avrebbe sottoposto quattro pazienti ad operazioni di cui non avrebbero avuto necessità. I fatti contestati vanno dal 2015 al febbraio del 2019.

Oggi ci si è concentrati sul caso di Renzo Tanzini, 51 anni, paziente affetto da un tumore al duodeno che aveva già intaccato il pancreas. Tanzini, che aveva una malattia rara, la sindrome di Lynch, patologia ereditaria caratterizzata dall’aumentato rischio di sviluppare il carcinoma colorettale, era già stato sottoposto nel 1996 all’asportazione di una neoplasia nella parte sinistra del colon, mentre nel 2011 aveva subito un’operazione di asportazione di un’altra neoplasia maligna. Nel maggio del 2016 era stato ricoverato a Cremona per essere operato del tumore al duodeno.

Prima dell’intervento, effettuato l’8 giugno, il paziente era stato sottoposto ad una colonscopia che aveva segnalato la presenza di un adenoma al colon potenzialmente pericoloso che bisognava asportare.  Si era quindi deciso di associare i due interventi, ma durante l’operazione, durata otto ore, erano sorte delle complicanze: un quadro di peritonite e ischemia in tutto l’intestino. Tanzini era stato poi sottoposto ad un’angiografia e operato di nuovo, ma solo il giorno dopo, quando il quadro clinico era ormai compromesso. Il 51enne era stato sottoposto ad altri 16 interventi chirurgici con i quali gli era stato asportato l’intestino quasi interamente. Il decesso era sopraggiunto il 15 agosto.

Gli avvocati di parte civile Palmieri (a sinistra) e Giarrusso

I consulenti tecnici del pm, il medico legale Andrea Verzeletti e il chirurgo Gianluigi Melotti, hanno contestato all’ex primario di essersi basato esclusivamente sulla colonscopia e di non aver effettuato la biopsia, dalla quale era risultato che la lesione era benigna. “Senza biopsia”, ha spiegato Melotti, “non si può diagnosticare un tumore maligno. Probabilmente, nel tempo la lesione si sarebbe trasformata in maligna, ma con uno screening la si teneva sotto controllo, al limite la si operava dopo due mesi”. Per l’esperto del pm,  poi, “se si fosse intervenuti subito dopo aver fatto l’angiografia si sarebbe potuto tentare una disostruzione chirurgica manuale. Più un vaso resta chiuso, più gli organi vanno in necrosi”. Per Melotti, si doveva operare subito, non il giorno dopo. “Senza quel ritardo, una porzione di intestino avrebbe potuto essere risparmiata”. Sull’ischemia, Melotti aveva sostenuto nella sua perizia che era stata causata “da un laccio durante l’intervento”. Il consulente, però, ha ritrattato, ed ad oggi, anche a causa dell’assenza di autopsia, non ci sono certezze.

Nel processo contro Martinotti, assistito dagli avvocati Carlo Enrico Paliero, Luca Curatti e Vania Cirese, c’è anche l’Asst, chiamata in causa come responsabile civile dagli avvocati di parte civile Guido Maria Giarrusso e Mario Palmieri. L’Asst è rappresentata dall’avvocato Diego Munafò, che ha portato in aula i consulenti Nicola Cucurachi, medico legale, e il chirurgo Paolo Soliani.

I due esperti hanno difeso l’operato di Martinotti, puntando l’attenzione sulla sindrome di cui soffriva il paziente: una malattia ereditaria “che provoca la comparsa di tumori ricorrenti”. I due esperti hanno chiarito che il paziente “non era in condizioni ottimali: era un malato neoplastico, ma che poteva essere sottoposto ad un intervento complesso”. Ma aveva la sindrome di Lynch, e questa rara malattia, per Soliani e Cucurachi, “ha comportato tutt’altra filosofia di valutazione diagnostica e di approccio clinico: il rischio che quell’adenoma piatto si potesse trasformasse in tumore maligno era totale, diversamente da quello che accade per un tumore sporadico. Nel caso di questo paziente la curva del rischio è una curva che non ha una fase discendente. Valeva la pena fare quell’intervento”.

L’avvocato Munafò

“Siamo sicuri al 50% che quell’adenoma sarebbe andato incontro a degenerazione”, ha spiegato Soliani, “e quindi non c’era motivo di fare la biopsia, che spesso dà il rischio di avere dei falsi negativi”. Di più: per il consulente, “fare la biopsia avrebbe comportato anche un rischio di perforazione, dovendo procedere non su un polipo con le solite caratteristiche, ma su un adenoma piatto di 4 cm”.

Per i consulenti Soliani e Cucurachi, inoltre, “non è stato dimostrato che le problematiche siano state provocate dall’associazione dei due interventi, nè che un intervento più veloce avrebbe cambiato le cose”.

“Nel caso di Tanzini”, hanno concluso i due esperti, “il team chirurgico non ha mai mollato, ha fatto di tutto per salvare il malato, ma per un paziente di questo genere, con le problematiche che aveva, la prognosi non era buona. Ci sono circostanze oltre le quali non si può andare”.

Si torna in aula il 2 novembre: il caso di Tanzini sarà trattato dai consulenti della difesa Lorenzo Polo, medico legale al San Matteo di Pavia e il chirurgo Marco Filauro. Consulente aggiunto della difesa è Davide D’Amico, luminare italiano ed internazionale e pioniere dei trapianti epatici.

Nella prossima udienza si tratterà anche un altro dei casi contestato a Martinotti, quello di Renza Maria Panigazzi, paziente di 75 anni che soffriva di una lesione cistica alla testa del pancreas. Martinotti l’aveva operata il 3 dicembre del 2018, anche se la lesione era benigna, così come dimostrato dagli esami diagnostici e dai marcatori tumorali negativi. Anche per lei nell’operazione era sorta una complicanza: un’ischemia al fegato. Secondo l’accusa, a quel punto il primario non aveva disposto alcun intervento, come ad esempio una epatectomia. Renza Maria era deceduta il 7 febbraio del 2019 per un grave stato settico.

Sara Pizzorni

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