Cronaca

"Tumore benigno, ma sintomatico
Intervento fortemente consigliato"

Caso Martinotti: per i consulenti del pm, "l'operazione
non andava fatta". Difesa: "Paziente morta per altra causa"
Prescritto uno dei casi contestati all'ex primario

Martinotti con il suoi legali

Nuova udienza del processo contro l’ex primario del reparto di Chirurgia dell’ospedale di Cremona Mario Martinotti, 65 anni, di Pavia, accusato di tre casi di omicidi colposi (un quarto è già prescritto). Per il pm Vitina Pinto, l’imputato avrebbe sottoposto i pazienti ad operazioni di cui non avrebbero avuto necessità.

Questa volta in aula i consulenti hanno trattato il caso di Renza Maria Panigazzi, paziente di 75 anni affetta da una lesione cistica alla testa del pancreas. Quella lesione le era stata scoperta nel 2015 durante alcuni esami di controllo. Tre anni più tardi la donna era stata sottoposta ad una risonanza magnetica dove la cisti era aumentata di dimensioni. L’11 aprile del 2018 la paziente era stata sottoposta ad una ecoendoscopia al pancreas, mentre il 10 ottobre, in seguito ad un controllo, si era visto che la lesione era ulteriormente aumentata. Era seguito il ricovero e il 3 dicembre l’intervento chirurgico. Martinotti l’aveva operata nonostante la lesione risultasse benigna, così come suggerito dagli accertamenti diagnostici e dai marcatori tumorali risultati negativi. Ma era sorta una complicanza: un’ischemia al fegato.

All’ex primario, i consulenti tecnici del pm, il medico legale Andrea Verzeletti e il chirurgo Gianluigi Melotti, hanno contestato il fatto di non aver disposto un esame istologico di quella lesione prima di intervenire chirurgicamente. “Quell’operazione non andava fatta”, ha detto Melotti. “Era un tumore benigno, la possibilità che si trasformasse in cancro era bassissima. Nessun intervento può essere fatto senza prima aver esaminato il liquido nella cisti”. “Per di più”, ha sottolineato il consulente, “il tumore non dava sintomi, nè comprimeva gli organi vicini.  Non bastava il fatto che fosse aumentato di dimensioni. E poi si trattava di un intervento molto impegnativo, che richiedeva una forte motivazione. La lesione era appoggiata sulla vena porta, un grosso tronco venoso che raccoglie il sangue proveniente dalla milza e dalla porzione sottodiaframmatica del tubo digerente per veicolarlo al fegato. Con le manovre del chirurgo, che ha tolto il pancreas, la vena si è occlusa e non portava più sangue al fegato”.

Il 13 dicembre, secondo quanto riferito dal medico legale Verzeletti, “il quadro clinico della Panigazzi era peggiorato. C’era un quadro di sepsi, per cui la paziente era stata trasferita in Rianimazione. In seguito era stata stabilizzata, si era cercato di drenare l’ascesso e successivamente era stata trasferita in reparto. Il 2 febbraio del 2019 era stato deciso il trasferimento all’ospedale di Varzi, e lì la 75enne aveva accusato un dolore all’anca destra. Le era stato trovato un ematoma sul fianco ed era quindi stata trasferita al San Matteo di Pavia. Il 7 febbraio le sue condizioni erano stazionarie, ma poi c’era stato un repentino peggioramento, fino al decesso, sopraggiunto quello stesso giorno”. Il medico legale della procura ha riferito che alla paziente non era stata fatta l’autopsia, ma che una morte così repentina aveva fatto propendere per un arresto cardio respiratorio. “Un problema cardiaco acuto”, secondo gli esperti del pm, “sul quale ha influito la perdita ematica legata all’ematoma, nonchè lo stato settico cronico legato all’ascesso solo parzialmente drenato”.

Per gli esperti della procura, “una cascata di eventi”, tutti derivanti dall’intervento chirurgico al quale la paziente era stata sottoposta all’ospedale di Cremona e dove le erano state praticate “almeno 10-11 trasfusioni di sangue”.

Gli avvocati Palmieri (a sinistra) e Giarrusso

Alle contestazioni dei consulenti del pm hanno risposto i colleghi della difesa Lorenzo Polo, medico legale al San Matteo di Pavia, e il chirurgo Marco Filauro, direttore del dipartimento all’ospedale Galliera di Genova, che invece hanno sostenuto la correttezza dell’operato di Mario Martinotti. “La paziente Panigazzi”, ha spiegato Filauro, “aveva 75 anni, era diabetica, aveva una malattia autoimmune, seguiva delle terapie, era ipertesa, aveva una situazione vascolare significativa e aveva avuto l’epatite C. Nel 2015 la sua lesione era di 5,5 centimetri e da lì è sempre stata monitorata. Non era tumorale. Nel 2018 era stata fatta una risonanza magnetica che aveva dato maggiori informazioni: la lesione era aumentata cospicuamente: 7,4 centimetri, ed era una cisti mucinosa: più a rischio, cioè, di diventare maligna. Sempre nel 2018, inoltre, si era visto che le pareti si erano ispessite e che la lesione, nel frattempo diventata di 8,4 centimetri, comprimeva la vena porta. Lo stesso radiologo aveva valutato indispensabile una valutazione chirurgica”.

“La lesione”, ha continuato Filauro, “si stava modificando, e c’era un effetto di compressione. Non è vero che la signora era asintomatica. Il figlio aveva detto che aveva disturbi, che non stava bene. La paziente, inoltre, era stata debitamente informata. Quel tipo di lesione, così come si può trovare nella letteratura medica, dava segni preoccupanti, era sospetta, l’intervento era fortemente consigliato”. Un intervento che “presentava difficoltà, in quanto queste forme cistiche vanno ad attaccarsi ai vasi. C’era la vena porta compressa ed era quindi necessario suturarla”.

Da lì era insorta la sofferenza del fegato e la trombosi dell’arteria epatica. “Una parte di fegato”, ha spiegato Filauro, “non riceveva sangue arterioso, ma non c’era un’ischemia totale, non erano  presenti sintomi o parametri di una sepsi, nè erano presenti segni del fatto che la lesione arteriosa fosse stata provocata da un gesto errato. Il drenaggio aveva risolto il problema, tanto che la paziente era stata trasferita all’ospedale di Varzi in un ambiente riabilitativo”.

L’avvocato Munafò

Ad un certo punto la paziente aveva accusato un dolore all’anca con la conseguente scoperta  di un ematoma: “un evento inaspettato”, per il consulente Filauro, “e niente affatto collegato all’intervento effettuato a Cremona. “Tanto che”, ha spiegato l’esperto, “quando la paziente era stata trasferita a Pavia, la Tac a cui era stata sottoposta indicava nel fegato ‘esiti cicatriziali dell’ascesso’: “Questo vuol dire”, ha chiarito il consulente, “che l’ascesso si era risolto. La Panigazzi, riuscita ad uscire da un decorso post operatorio difficile, è morta di un evento acuto di origine cardiaca dovuto ad un problema autonomo, un problema legato ad una zona anatomica che nulla aveva a che fare con la lesione per cui era stata operata”.

In apertura di udienza, prima che si entrasse nel vivo del caso Panigazzi, i consulenti della difesa Polo e Filauro sono intervenuti in merito al caso, già trattato lo scorso 12 ottobre dai loro colleghi di parte, riguardante Renzo Tanzini, 51 anni, paziente affetto da un tumore al duodeno che aveva già intaccato il pancreas. Prima dell’intervento, effettuato l’8 giugno del 2016, il paziente, che aveva una malattia rara, la sindrome di Lynch, patologia ereditaria caratterizzata dall’aumentato rischio di sviluppare il carcinoma colorettale, era stato sottoposto ad una colonscopia che aveva segnalato la presenza di un adenoma al colon potenzialmente pericoloso che bisognava asportare.  Si era quindi deciso di associare i due interventi, ma durante l’operazione, durata otto ore, erano sorte delle complicanze: un quadro di peritonite e ischemia in tutto l’intestino. Tanzini era stato poi sottoposto ad un’angiografia e operato di nuovo, ma solo il giorno dopo, quando il quadro clinico era ormai compromesso. Il 51enne era stato sottoposto ad altri 16 interventi chirurgici con i quali gli era stato asportato l’intestino quasi interamente. Il decesso era sopraggiunto il 15 agosto.

Per Polo e Filauro, “non c’è stato alcun accanimento terapeutico, ma solo un tentativo di dare una chance ad un uomo sfortunato e ad un paziente già fortemente compromesso dalla sindrome della quale soffriva, e dagli effetti negativi sulle arterie e vasi sanguigni dovuti al fumo e all’uso di sostanze. Aveva più possibilità di sviluppare trombosi, ed era segnato, a causa della malattia di Lynch, dalla possibilità di avere delle recidive. Nel suo caso, la combinazione tra trombosi arteriosa e venosa ha creato una situazione devastante”.

Con l’udienza di oggi sono stati discussi tutti i casi contestati all’ex primario, che non deporrà in aula. Un solo caso non sarà trattato in quanto già prescritto: quello di Giuseppina Zanardi, 75 anni, operata al pancreas l’11 marzo del 2015.

Nel processo contro Martinotti, assistito dagli avvocati Carlo Enrico Paliero, Luca Curatti e Vania Cirese, c’è anche l’Asst, chiamata in causa come responsabile civile dagli avvocati di parte civile Guido Maria Giarrusso e Mario Palmieri. L’Asst è rappresentata dall’avvocato Diego Munafò.

Due le date fissate per le conclusioni del procedimento: il 19 aprile e il 10 maggio del prossimo anno.

Sara Pizzorni

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