Un racconto di MAP
Lo sconosciuto
Un racconto di MAP
Guardava la tazza vuota da mezz’ora, come se lì dentro ci fosse qualcosa che le mancava. Il telefono iniziò a squillare con l’urgenza di chi vuole condividere una tragedia. Marta sollevò lo sguardo dalla tazza e sbuffò. Sapeva benissimo che si trattava della telefonata quotidiana della madre, alla quale si sottraeva nelle ultime settimane. Si accese una sigaretta con movimenti lenti quasi a compensare la velocità dei pensieri. Il telefono riprese a squillare nella sua apparente indifferenza. Aprì la dispensa in cerca di un conforto e trovò quel barattolo di cioccolata che aveva nascosto come si fa con le debolezze. Ci affondò le dita come faceva da bambina, azione seguita dalla litania stonata di parole materne non esagerare con i dolci non correre non sudare non entrare nell’ascensore con gli sconosciuti. Quella storia dello sconosciuto era stata una eco costante nella sua vita. Crescere così può essere disturbante, ma in fondo guardava con tenerezza sua madre, una donna che aveva subito l’infamia di essere abbandonata sull’altare con il ventre gonfio di vita. Nel corso degli anni aveva spesso chiesto di suo padre, ma la narrazione era sempre la stessa: lui non vuole saperne niente di noi. Così la madre liquidava il discorso. Marta se ne era fatta una ragione, forse più per non darle un dispiacere. Aveva esorcizzato quella mancanza come meglio poteva, ma lo sconosciuto covava in lei un senso di incompiutezza. Come quando, un giorno di due settimane prima, aveva letto su Facebook la richiesta di aiuto di un uomo sulla settantina di nome Giuseppe, che cercava sua figlia, nata da un amore ostacolato – così lo definiva – ventotto anni prima. Il nome della donna, Caterina, la sua descrizione fisica, l’anno e la città in cui si era consumato quell’amore: tutto coincideva, tutto in quel messaggio parlava di sua madre. E poi, le fotografie di quell’uomo. Marta le aveva osservate per ore, nulla che riconducesse a lei se non quel piccolo neo a forma di stella sullo zigomo destro, identico al suo. Quanto può essere comune? pensò. Trascorsero alcuni giorni prima che si decidesse a parlarne con sua madre e quando lo fece fu come se tutti gli sconosciuti del mondo avessero la sua faccia. La madre non riuscì a negarle la verità, non più: nessuna infamia di un matrimonio mancato, ma solo la vergogna di una giovane donna nel confessare il segreto della relazione con un uomo sposato che portò a quella gravidanza, la condanna da parte dei genitori e il ritiro forzato da una vecchia zia in un piccolo paese del Centro Italia, lontano da quell’uomo, dove nessuno poteva fare domande. Non riusciva a provare rabbia, né paura o tristezza. Marta era confusa e per la prima volta ebbe compassione di sua madre, guardandola con la testa china in segno di resa. In quella storia c’erano solo vittime, era come una pioggia sottile, non la vedi arrivare ma bagna tutto. «Sei adulta», disse la madre, «se vuoi conoscere quell’uomo non posso impedirlo. Ma cosa succede se dopo averti conosciuta sparisce, ci hai pensato?» Marta non aveva messo in conto questa ipotesi e non le importava. Trascorsero alcuni giorni prima che lo contattasse, ed altri prima che si convincesse a incontrarlo, poi quel giorno era arrivato. Avevano appuntamento in un bar, zona franca dove tra tanti sconosciuti si sarebbe sentita più a suo agio. Mancava poco all’incontro e il telefono continuava a squillare. Marta non rispose, prese le chiavi dell’auto e uscì di casa. Uno, due, tre squilli, ne seguirono un quarto e un quinto, poi un messaggio: Ti voglio bene. Mamma.
