Cronaca

TALENTI CREMONESI ALL’ESTERO (17) Daria Loi da Portland: «Ora torno in pace e so che anche Cremona ha gioielli nascosti in attesa di essere scoperti»

Un racconto lungo, da leggere con calma. Ricco di emozioni, di sensazioni, di riflessioni e di “serendipity”. Dall’Australia all’America ecco la storia di Daria Loi, 43 anni, ricercatrice. E’ via da Cremona da tredici anni e mezzo. Attualmente vive a Portland con suo marito in un quartiere residenziale anni ’50.

Daria Loi, 43 anni, vive a negli Stati Uniti a Portland (Oregon), in una zona residenziale degli anni ’50 («Se non fosse per le auto parcheggiate (eccetto le nostre che sono Volvo del ’57 e del ’68) sarei sicura di vivere nel 1955»). E’ via da Cremona dal 1998, da 13 anni e mezzo. «Presi la decisione di andarmene alla fine del gennaio 1998 e a metà aprile ero già a Melbourne, in Australia – racconta – Mi sbarazzai di auto, lasciai la casa in affitto di Via XI Febbraio (quattro passi dalla mia scuola elementare), impacchettai ciò che volevo lasciarmi alle spalle e salutai chi dovevo salutare. Alcuni (tanti forse) pesarono fossi impazzita, altri cercarono di convincermi a cambiare idea e altri ancora dissero che probabilmente sarei rientrata dopo qualche mese, delusa dal fallimento». Delusi gli altri, invece. Daria Loi vive in Oregon ed è User Experience Manager all’Intel Corporation. «In pratica faccio ricerca etnografica per capire come le tecnologie elettroniche vengano utilizzate da utenti in diversi paesi e poi ho il privilegio di proporre, creare e sviluppare nuove tecnologie. Faccio parte di un team composto da designers, ingegneri hardware e software, Platform Architects, Marketing Specialists, e un User Experience Manager: io».
Al momento il team di Daria sta lavorando alla prossima generazione di computer portatili, attraverso lo studio del comportamento degli utenti in Europa e, tra qualche mese, in India (o Cina). «Il mio lavoro mi permette di viaggiare e conoscere culture diverse in modo diretto e interessante perché di solito conduco le mie ricerche nei luoghi e abitazioni degli utenti che intervisto. Ho condotto e gestito studi in Cina, Egitto, Taiwan, Brasile, India, Indonesia, Korea del Sud, Australia, USA e mezza Europa. Viaggiare per lavoro é diverso dall’andare in vacanza, ma devo ammettere che il mio lavoro é entusiasmante e di grande soddisfazione. Conoscere altre culture é fantastico; farlo per lavoro… una fortuna incredibile. Inoltre, ho la possibilitá di influenzare le decisioni di corporations che potrebbero mettere sul mercato tecnologie inutili – ho la possibilitá di convincerli a sviluppare tecnologie che servono, che possono migliorare le cose, che utilizzano le risorse del nostro pianeta con rispetto ed intelligenza. E posso fare tutto ció collaborando con colleghi fantastici, tra i migliori del settore –cervelloni super-dotati. Si, mi sento davvero fortunata».
Lasciare Cremona non è stato per niente facile.  «Fu una decisione difficile – confessa -, ma necessaria: stavo implodendo. Nonostante una laurea col massimo dei voti (in Architettura – al Politecnico di Milano), i prospetti all’epoca davano poche speranze. Lavoravo, ma niente di entusiasmante o che desse soddisfazione: servivano soldi e quindi si lavorava, niente di piú. Sentivo dentro il desiderio di evolvere, imparare, crescere… ma la realtá era che il mio cervello si stava atrofizzando. Mi sentivo intrappolata, soffocata e senza speranze. Poi, una sorta di miracolo: ereditai una piccolissima somma. Con quella somma in mano mi chiesi “Che ne faccio? Auto nuova?”. No, quella che avevo funzionava. “Compro casa?”. No, non erano poi cosí tanti soldi. Una possibilità, ecco cosa mi serviva: una possibilitá. Coincidenza volle che in quel periodo un ragazzo che frequentavo stava per partire per fare un Master in Australia. L’Australia é sempre stato un mio pallino e quindi feci un 2+2 molto veloce. Fu come se qualcuno mi avesse improvvisamente rimosso dagli occhi delle fette di salame gigantesche: nessuno mi tratteneva, nessuno mi soffocava, e le speranze stava a me crearle. In pratica era tutto nelle mie mani, inclusa questa possibilità. Cosí partii e mi ritrovai in Australia. Melbourne è una città bellissima e l’Australia ormai fa parte di me: adoro lo stile di vita, la natura, l’irriverente senso dell’umorismo e la cultura multi-etnica. Per non parlare del cibo! A Melbourne gli Europei sono una minoranza e devo dire che il ritrovarmi improvvisamente minoranza é stata una esperienza davvero formativa. Quando torno in Italia e sento commenti poco tolleranti per strada, spesso penso che molti connazionali dovrebbero fare un’esperienza simile – e toccare con mano la relativitá delle proprie opinioni e convinzioni. Certe esperienze ti fanno capire che spesso non c’é un modo giusto o sbagliato di fare e vedere le cose che ti circondano: solo modi diversi…. e che tutti hanno ragione, torto, e sono umani come te. Melbourne mi ha insegnato molto e ci sono rimasta per circa 8 anni, duranti i quali avevo una cattedra in Design Studies al Dipartimento di Disegno Industriale del Royal Melbourne Institute of Technology. Durante gli stessi anni ho anche fatto un Ph.D. in Management piuttosto singolare, che mi ha dato moltissime soddisfazioni». E allora come mai hai lasciato Melbourne…?
«Serendipity sarebbe la risposta piu’ adeguata. Un giorno del 2005 (a Sydney, in aeroporto) stavo controllando online se qualcuno aveva citato dei miei articoli e per caso capitai nel blog di una ricercatrice Canadese che parlava della mia tesi di dottorato. La cosa mi incuriosì non solo perché non conoscevo nessuno della sua universitá ma anche perché nel blog diceva che un certo Antropologo che lavora all’Intel gli aveva parlato della mia ricerca. Un Antropologo dell’Intel? La trovai una cosa curiosa. Quindi mandai immediatamente una email alla Canadese e all’Antropologo. La Canadese non rispose ma l’Antropologo sì, e mi chiese di dargli il mio numero di telefono per una chiacchierata. Mi chiamò, parlammo di ricerca per un’oretta e la cosa sembrava finita lì. Dopo una mezz’ora, però, mi arrivò una sua email chiedendomi se mi potesse interessare lavorare per l’Intel. La prima reazione fu: assolutamente no. L’america? Una corporation? No, no, no! Quando però ricevetti la descrizione della posizione, mi resi immediatamente conto che sembrava scritta su misura per me. E cosí alla fine del 2006, vendetti la mia vecchia Ford Laser di terza mano ad una ex studentessa, lasciai la casa in affitto sul The Boulevard, impacchettai ciò che dovevo impacchettare e salutai chi dovevo salutare. Fu durissima e devo ammettere che per il primo anno mi sono chiesta se lo spostarmi in America sia stato un errore. Poi peró ho scoperto tre cose importanti: uno, se vuoi capire e goderti il Pacific North-West, frequenta gente del luogo; due, Portland é una delle cittá piú progressiste d’America; tre, a Portland ci vive Cameron, mio marito. Credo che la Serendipity (o Destino) a cui accennavo prima abbia molto a che fare con lui. Melbourne mi ha insegnato molto e Portland mi ha regalato un marito fantastico. Credo che ogni cittá (e persona) nasconda gioielli in attesa di essere scoperti – l’importante é cercarli, riconoscerli e apprezzarli. In questo contesto il lasciare alle spalle il mondo che conoscevo, l’esplorare il diverso, il darmi il permesso di tentare senza paure, e il construire nuove possibilitá sono stati per me atti difficili ma fondamentali. Molto del mio quotidiano attuale deriva da quegli atti».
Il giudizio di Daria su Cremona è cambiato molto negli anni. «All’inizio tornavo e mi sentivo disconnessa, estranea, aliena – racconta -. Molti mi dicevano: “Beh, fortunata tu, che te ne sei potuta andare!” e io pensavo: “Nessuno ti obbliga a stare se non ti va”. Tornavo e Cremona e mi sembrava piccola, provinciale, limitata. Poi, col tempo ho imparato ad apprezzarla in modo diverso, molto piú di quando ci vivevo. Ho iniziato a guardarla con gli stessi occhi che uso per il mio lavoro: occhi tolleranti. Allora le cose sono cambiate. Ora torno a Cremona e ho le idee piú chiare su cosa mi manca, mi piace, amo e vorrei poter avere accanto. Per esempio, potrei stare ore ed ore in Piazza del Duomo e quando sono in cittá faccio di tutto per passarci, anche quando significa allungare la strada. Spesso mi chiedo come abbia potuto avere una tale meraviglia davanti al naso e darla per scontata. Amo andare al mercato: i rumori della gente che chiacchiera, i vecchietti in bicicletta vicino al battistero, l’odore del formaggio, i colori dei fiori. Sorrido quando sento qualcuno fare un commento in dialetto per strada. Adoro portare mio marito a prendere l’aperitivo e ordinare un Campari in due con l’aranciata amara. Ora vedo Cremona per quello che é: una bellissima città italiana coi suoi ritmi e la sua gente. Ora torno in pace, mentre quando me ne sono andata forse in pace (con me stessa) non lo ero. Ora so che anche Cremona aveva gioielli nascosti in attesa di essere scoperti – per trovarli, riconoscerli ed apprezzarli mi serviva semplicemente un po’ di distanza».
La vita nel quotidiano è cambiata radicalmente, dall’uso della macchina alla vita in comunità. «Gli Americani – dice – sono diversi dagli italiani e dagli australiani (per fortuna non nel modo stereotipato che molti pensano): hanno i loro ritmi, modi di fare e convinzioni. Perfino il senso dell’umorismo é diverso! Quindi il mio quotidiano é un equilibrio tra la Daria italiana, quella americana e quella australiana. Una cosa che ho imparato con tutto questo vivere in posti diversi è che devi ripettare il posto che ti ospita ma che allo stesso tempo devi rispettare la tua identità. Io ci ho messo molto a imparare ma credo di avere ormai trovato il mio equilibrio. Credo che a livello quotidiano la nozione di comunitá sia vissuta e praticata diversamente. A Cremona (e in Italia) facciamo molte cose per strada – la comunità è proiettata nelle piazze ed è spesso improvvisata, passionale, impulsiva. Questo non esiste a Portland. Facciamo moltissime cose per strada e il senso di comunità è molto forte – ma il tutto è più organizzato, forse meno spontaneo e decisamente meno passionale. Altra quotidianità differente: l’uso della macchina. Ricordo che quando vivevo a Cremona io e i miei amici discutevamo per ore se era il caso di guidare quei 15 km per andare ad una sagra in un paesino “lontano”. Ora quei 15km li percorro due volte al giorno, per andare a lavorare – e quei 15km ora li considero “abitare molto vicino al lavoro”. Ironia della sorte. Altra diversità quotidiana: la libertá di apparire come ti va. Questo é davvero un lato che amo: qui pochissimi giudicano o si interessano a come ti vesti, di che marca é la tua borsetta e se sei in peso forma. Questo non significa che non ci siano superficialitá, ma le superficialitá sono disconnesse dal mondo della moda e della linea, che tanto regola i comportamenti e i giudizi Italiani. Trovo la cosa meravigliosamente liberante – e mai avrei pensato che si potesse andare al supermercato in pigiama, inosservata! Una cosa che decisamente non é cambiata: la presenza di scooter e motorini italiani. Mio marito ha due scooter d’epoca e la maggior parte dei nostri amici fanno parte degli stessi club Vespa e Lambretta. Mi ha stupito e fatto sorridere l’esistenza di così tanti fanatici della Piaggio e della Innocenti in America!».
L’ultima domanda: torneresti a vivere qui? «Torno spesso a trovare la mia famiglia e devo dire che mi piace molto di piú l’idea di tornare, temporaneamente, da semi-turista osservatrice. Piú volte mi sono stati offerti lavori in Italia e piú volte ho detto di no. L’Italia é secondo me un bellissimo paese – é il mio paese – ma viverci mi sembra piú complesso del necessario. La vita é cara, la burocrazia ti ammazza, il senso civico peggiora ogni anno di piú, i salari sono bassi e le tasse alte. Tutto questo mi sembra indicare una qualitá di vita mediocre. Venire da turista mi permettere di vivere le parti migliori: la famiglia, l’arte, il cibo, la musica, l’architettura, la storia… si certo, forse é un discorso egoistico ma la vita é una sola… perché usarla facendomi del male? Se le cose cambiassero, forse considererei ritornare in Italia – per vivere piú vicino alla mia famiglia. Ma per ora la vedo dura e lontana… troppe cose dovrebbero cambiare. Sono contenta della scelta che ho fatto. Non me ne sono mai pentita e so che se anni fa non me ne fossi andata non avrei fatto le esperienze che ho fatto, non sarei diventata la persona che sono e non avrei ció che ho, marito incluso!»
«Non so cosa avrei fatto se fossi rimasta – conclude -. A Cremona ho lavorato come rappresentante, barista, architetto, insegnante di danza, venditrice ambulante e carpentiere… non so che lavoro avrei fatto ma so per certo che avrei avuto un lavoro: faccio fatica a stare con le mani in mano».

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