Politica

Le riforme che cambiano
l’equilibrio della Repubblica

Michele Bellini e Luciano Pizzetti

“Aiutati che Dio ti aiuta” è un antico proverbio che invita alla responsabilità individuale. Traslata sul piano collettivo, questa massima appare sorprendentemente attuale per le nostre democrazie. Dalle elezioni presidenziali in Romania all’ascesa dell’AfD in Germania, passando per i cosiddetti “cordoni sanitari” istituiti in Europa per contenere l’avanzata dei partiti estremisti, le democrazie liberali si trovano a fronteggiare pressioni sempre più forti. Tali pressioni mettono in luce uno dei paradossi più profondi del sistema democratico, sintetizzabile in una domanda: quanto liberale deve essere una democrazia?

Questa non è solo una provocazione retorica, ma una riflessione essenziale. La democrazia, a differenza dei regimi autoritari, è per sua natura imperfetta, o meglio, non assoluta. Una “democrazia pura”, infatti, rischierebbe di scivolare nell’autoritarismo. Per garantire un’uguaglianza politica assoluta tra i cittadini, dovrebbe comprimere la libertà economica e civile fino a diventare un sistema oppressivo. Ecco perché le democrazie moderne sono definite costituzionali: i limiti e le regole poste dalle Costituzioni servono a bilanciare la sovranità popolare e a proteggere i diritti fondamentali.

In questo quadro, è importante ricordare che le elezioni, seppur fondamentali, non bastano da sole a definire una democrazia. La storia lo dimostra: la Repubblica di Weimar permise l’ascesa del nazismo tramite elezioni regolari, legalmente ineccepibili. Oggi, però, si assiste anche al fenomeno opposto: affidarsi esclusivamente ai vincoli costituzionali, trascurando – o mettendo in secondo piano – l’effettiva volontà popolare di difendere la democrazia, rischia di sortire l’effetto contrario. L’esempio delle recenti elezioni in Romania, dimostra quanto possa essere rischioso affidarsi solo ai vincoli, seppur validi, perché ciò può offrire ai partiti sovversivi l’occasione perfetta per presentarsi come vittime del sistema o, peggio, come i veri difensori della democrazia. Una dinamica che non solo legittima la loro posizione, ma alimenta anche una narrativa pericolosa, sostenuta dall’amministrazione Trump, secondo cui l’Europa non sarebbe più davvero democratica.

Una democrazia solida, quindi, si regge su un delicato equilibrio tra due elementi: il voto popolare e i limiti costituzionali. Nessuno dei due, da solo, è sufficiente a garantirne la sopravvivenza. Lo ricorda chiaramente il primo articolo della nostra Costituzione: “La sovranità appartiene al popolo” — esercitata attraverso le elezioni — “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” — i vincoli.
I dibattiti attuali riflettono sensibilità diverse su quale debba essere l’equilibrio specifico tra i due elementi. C’è chi sostiene che, in caso di pericolo per la democrazia, debbano essere i limiti costituzionali a prevalere, in un’ottica preventiva. Altri ritengono inaccettabile punire le idee anziché le azioni. E poi ci sono posizioni più pragmatiche, che valutano l’efficacia concreta delle misure, prima ancora del loro valore simbolico.

Tutto ciò assume un significato particolarmente rilevante se guardiamo alla situazione italiana, dove le riflessioni sullo stato della democrazia si intrecciano con riforme concrete che rischiano di alterarne gli equilibri. Da un lato si propone la modifica della legge elettorale dei comuni, con l’abolizione del ballottaggio; dall’altro si spinge per assicurarsi il controllo del Quirinale, direttamente con l’introduzione del premierato o indirettamente attraverso una modifica della legge elettorale che garantisca la maggioranza necessaria all’elezione nel 2029. Entrambe le iniziative puntano a indebolire gli ultimi due contrappesi al potere: i sindaci e il Presidente della Repubblica. Quest’ultimo, in particolare, ha rappresentato un elemento di equilibrio fondamentale, svolgendo un ruolo chiave nel contenimento di certe derive.

Le riforme vengono giustificate con la scarsa partecipazione eletorale: un esempio emblematico di come si possano usare gli stessi strumenti della democrazia — elezioni e regole — per giustificare uno spostamento degli equilibri. In particolare, la discussione sulla legge elettorale per il Parlamento è attualmente preoccupante perché prevedrebbe un premio di maggioranza abnorme rispetto al consenso ricevuto: con il 40% dei voti si otterrebbe il 60% dei seggi. Si andrà molto probabilmente verso un premio del 15% per evitare profili di incostituzionalità. Mettendo tutto insieme, si rischia così di aprire la strada a un cambiamento profondo e unilaterale della Repubblica, scritto da una sola parte politica.

Costruire un’alternativa è diventata una responsabilità storica. Se non saremo in grado, il paese rischia di restare a lungo sotto il segno di un’egemonia meloniana, appoggiata dall’alleato d’oltreoceano e punteggiata solo da qualche fiammata europeista. Intanto si riscrive la memoria della Repubblica. Questa è la vera emergenza democratica. Su questo dovremmo essere tutti attenti e vigili. E rimboccarci le maniche.
Michele Bellini – Segretario Provinciale del Partito Democratico
Luciano Pizzetti – Presidente del Consiglio Comunale di Cremona

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