Lettere

Stupore e polemiche sul “Manifesto di Ventotene”

da Andrea Giacalone

Il “Manifesto di Ventotene”, con il suo carico di ideologia internazional-socialista, a decenni dalla sua redazione tuttora attira, stupisce e genera polemiche. Sul piano economico, le considerazioni in esso contenute mi inducono a rivolgere lo sguardo alla riflessione che, quasi contestualmente, sul particolare tema della “proprietà privata”, si svolse nell’immediato dopoguerra in Assemblea Costituente. In sintesi, le visioni che in quella sede si contrapponevano erano, dal lato dei conservatori, rivolte a garantire e proteggere l’inviolabilità della proprietà privata in quanto strumento indispensabile per assicurare libertà ed autodeterminazione dell’individuo, dal lato dei socialisti e comunisti, indirizzate a comprimere questo diritto, perché incompatibile con la loro concezione socialista e collettivista della realtà umana.

Due filosofie nettamente opposte, la prima giusnaturalista e la seconda giuspositivista, che trovarono poi un accomodamento in formule di compromesso la cui elaborazione non fu per niente semplice. In una prima stesura, risalente al Settembre 1946, il relatore democristiano Paolo Emilio Taviani proponeva all’Assemblea di declinare così il concetto: “Allo scopo di garantire la libertà e l’affermazione della persona viene riconosciuta e garantita la proprietà privata frutto del lavoro e del risparmio”.

Nell’evidente tentativo di acquisire il consenso di socialisti e comunisti, Taviani faceva bene attenzione ad usare il termine “persona” in luogo di “individuo”, quest’ultimo guardato con grande sospetto dai suoi avversari politici. Inoltre, Taviani tentava un po’ goffamente di portare dalla propria parte i progressisti subordinando il diritto di proprietà privata ad attività umane, il “lavoro” ed il “risparmio”, che da un lato potessero esaltarne la funzione sociale e da un altro lato limitassero il potere dei redditieri, grandi proprietari, storicamente invisi alle forze di sinistra. Nessuno tra i socialisti e i comunisti, in quella fase storica ed in quel contesto pubblico, manifestava l’intenzione di abolire la proprietà privata; è tuttavia chiaramente intuibile come quel proponimento venisse nella loro mente solo rinviato ad un auspicabile ed auspicato futuro, verso cui il popolo sarebbe stato accompagnato, se necessario con una adeguata opera di persuasione: la rivoluzione sociale, a quel punto, si sarebbe finalmente, definitivamente compiuta.

Taviani, opponendosi timidamente sul punto, così si esprimeva il 25 Settembre 1946: “Questi pensano che fra un secolo possa non esserci più alcuna proprietà privata. Affermo però che a mio parere anche i comunisti devono comprendere la posizione dei democristiani, i quali ritengono che almeno un minimo di proprietà privata ci sarà sempre”. I progressisti sapevano di non potersi permettere palesi estremismi: il numero dei loro rappresentanti, consistente ma minoritario, non avrebbe consentito di imporre, con un’azione di forza, la loro esclusiva volontà. Gli sforzi dei deputati di sinistra si volsero quindi all’obiettivo di inserire in Costituzione delle espressioni che da un lato, nella contingenza del momento, limitassero, contenessero la proprietà privata, attribuendo allo Stato la facoltà di sottrarla a chiunque in caso di un non meglio precisato “abuso” o in presenza di prioritarie ragioni di carattere sociale, e d’altro lato dessero facoltà, o non impedissero, al futuro legislatore di una società in cui la proprietà privata sarebbe sostanzialmente scomparsa, la libertà di decretarne anche l’abolizione. La definitiva, tuttora vigente, formulazione dell’articolo 42 della Costituzione rappresentava la sintesi delle posizioni sinteticamente accennate: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale”.

Una conclusione, quella del Costituente del 1947, del tutto priva di accenni a princìpi di diritto naturale che riconoscessero, inequivocabilmente, l’assoluta inviolabilità della proprietà privata. Socialisti e comunisti, in questo modo, ottenevano che la proprietà privata fosse sottoposta al costante presidio del legislatore di uno Stato che, “determinando” e “limitando”, sarebbe stato di fatto nella condizione di contenerla, di circoscriverla, perfino anche di negarla in qualunque momento. Le sinistre, sovraordinando lo Stato all’individuo, molto abilmente riuscivano quindi a far passare dalla finestra ciò che non sarebbe stato loro possibile fare entrare direttamente dalla porta. Catullo Maffioli, rappresentante in Costituente del “Fronte dell’Uomo Qualunque”, chiariva bene il proprio pensiero lamentando di dovere constatare una condizione tipica dei sistemi totalitari. Il 3 Maggio 1947 affermava: “nelle sue linee essenziali e fondamentali, infatti, il titolo III tende ad accentrare nello Stato tutte quelle facoltà che per diritto naturale spetterebbero all’individuo in rapporto alla proprietà privata e alla libera iniziativa economica privata. Pur proclamando, in teoria, la legittimità della proprietà privata, e pur riconoscendo e anzi garantendo la libertà dell’iniziativa economica privata, in realtà ne prevede e ne suggerisce tante e tali limitazioni che, in definitiva, non si saprebbe ben comprendere che cosa potrebbe restare più di codesti due concetti essenziali ad ogni civile convivenza”. Di tali influenze positiviste, che antepongono lo Stato al popolo, la “Costituzione più bella del mondo” mostra tracce tanto evidenti quanto diffuse. Verrebbe dunque spontaneo chiedersi come poté un gruppo numericamente minoritario ottenere in Assemblea Costituente una così ampia affermazione.

Al di là di ogni personale congettura, sembra opportuno dare la parola ad un protagonista di quell’epoca tumultuosa, Alfredo Pizzoni, cremonese di nascita, che tra il 1943 ed il 1945 svolse le funzioni di presidente del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia), l’organo di governo politico del movimento partigiano. Nel suo diario, pubblicato postumo da Einaudi nel 1993, nel narrare di una situazione di caos crescente in cui, sin dall’inizio del 1945, comunisti e socialisti, confidando nell’arrivo delle armate sovietiche nella valle del Po prima degli anglo-americani, si apprestavano a cambiare la realtà nazionale conformandola alle ideologie da loro promosse, chiarisce il ruolo dei restanti partiti in gioco: “In tanto agitarsi di passioni (…) i due uomini che rappresentavano i partiti liberale e democratico cristiano si trovarono impreparati e indifesi. Disarmati anche da una loro fondamentale ‘buona fede’ che si trovò in completo contrasto con l’abitudine che voglio chiamare, impropriamente, machiavellica, dei loro colleghi, acquisita, ahimè, nella pratica di lotte politiche condotte per anni senza esclusione di colpi, a base di sotterfugi e raggiri profondi e complicati, e nella sofferenza di lunghi periodi di carcere e di esilio (…) Arpesani (Partito Liberale n.d.r.) e Marazza (Democrazia Cristiana n.d.r.) (…) furono sopraffatti dalla fermezza dei loro compagni e (…) per il nobile desiderio di mantenere compatto e unanime il fronte del CLNAI, finirono col piegarsi, se pure a malincuore e dopo molte titubanze, a decisioni che nel loro intimo non approvavano”. La descrizione di Alfredo Pizzoni offre una opinabile ma considerevole ipotesi sulle dinamiche decisionali che portarono a fare prevalere – anche in Assemblea Costituente, un contesto che era espressione diretta della volontà dei partiti, politicamente analogo a quello del CLNAI – le idee sostenute da una ultra determinata minoranza che si opponeva ad una più riflessiva maggioranza. Sarebbe dovere dell’uomo moderno, emancipato da qualunque pregiudizio ideologico, domandarsi se gli ideali cristallizzati dal Costituente del 1947 rispecchino ancora oggi fedelmente, se mai lo hanno fatto nel passato, il comune sentire del popolo a cui sono rivolti.

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