Lettere

Tenere viva la memoria di Pier Paolo Pasolini

da Sergio Ravelli, Valter Vecellio, direttore di Proposta Radicale

In mancanza di idee, nulla di meglio che celebrare anniversari. Se questo è vero, a fronte del fiorire di una quantità di iniziative in corso e altre che verranno, si ricava che per quel che riguarda Pier Paolo Pasolini di cui ricorre il mezzo secolo dalla morte (per misteriosa uccisione nel lido di Ostia) pochissime sono le idee, e vaghe, confuse; o peggio: parziali, spesso piegate a interessi contingenti e meschinamente di parte. Con un maldestro tentativo, sia da destra che da sinistra, di accaparrarselo: da artista maledetto e scomodo, Pasolini diventa “comodissimo”, proprio a coloro che maggiormente lo hanno avversato e combattuto. Ne sorriderebbe divertito, dopo un primo moto di amaro furore.

Vale tuttavia la pena di approfittare della ricorrenza per ricordare un personaggio tra i più singolari del nostro secondo Novecento; e cercare di mettere qualche “tessera” nella sua giusta collocazione.

Bolognese di nascita (5 marzo 1922), Pasolini ha undici anni quando il padre, ufficiale di carriera, viene trasferito a Cremona. Frequenta il liceo Daniele Manin; una targa lo ricorda sulla casa d’angolo tra via Platina e via XI febbraio dove ha vissuto per un paio d’anni: “Da questa casa dove terminò la sua infanzia dal 1933 al 1935 Pier Paolo Pasolini dispiegò la sua avventura artistica”.

Di Cremona Pasolini parlerà confidandosi con Dacia Maraini: “La forza con cui Cremona mi aveva colpito, accogliendomi come uno straniero, quasi come un orfano esponendo davanti ai miei occhi incapaci di giudizio, le sue superfici di pietra, l’antico affaccendarsi umano del centro, le zone erbose della periferia fluviale – si era attutita contro quella mia remissività, cresciuta all’interno, con la nuova forma che in me aveva preso mia madre: leggerezza, dedizione, miste a una serietà che era addirittura intransigenza”.

È durante gli anni cremonesi che comincia a “maturare” il Pasolini che poi conosceremo e di volta in volta sarà apprezzato e disprezzato. Lui stesso ricorda che a Cremona prende consapevolezza della fine dell’adolescenza, diventa adulto (e tuttavia, sempre con lancinante nostalgia per la perduta fanciullezza). Diventerà, assieme a Leonardo Sciascia e pochissimi altri, non un profeta (definizione che avrebbe rigettato), ma intellettuale dotato della capacità di vedere e ascoltare, là dove i più si limitano a guardare.

Per questa sua rabdomantica capacità di cogliere con anticipo le evoluzioni/involuzioni dei tempi, si deve il suo incontro con Marco Pannella e il Partito Radicale. Fin dagli anni ’60, quando entrambi sono in prima fila nella difesa di un filosofo, Aldo Braibanti che si voleva perseguitare per la sua omosessualità, ma non potendolo fare, si ripiegò per il reato, allora esistente, di plagio.

Il comune sentire di Pasolini e di Pannella si coglie sol che si legga una recensione che il poeta pubblica sul settimanale Tempo del 4 novembre 1973. Il libro recensito è quello di Andrea Valcarenghi, Underground a pugno chiuso. Per Pasolini il libro vale meno di niente: “…il suo linguaggio, rivela, è una spaventosa miseria culturale. Esso è formalmente il prodotto della più pura sottocultura…”.

E’ piuttosto la prefazione di Pannella che ritiene preziosa: “…un avvenimento nella cultura italiana di questi anni…La definizione che vi si dà dei rivoluzionari della nonviolenza, del potere, della sinistra tradizionale e della nuova sinistra, sul fascismo, e soprattutto, in modo sublime, sull’antifascismo mi spinge ora inevitabilmente a concludere con una esortazione al lettore a non lasciarsi sfuggire queste pagine di Pannella, che son le uniche finora in Italia a definire dall’interno un periodo della contestazione e a delinearne una possibile continuità”.

Le coincidenze sono quasi sempre incidenze. In occasione dell’anniversario comporta la riproposizione di libri e testi pasoliniani; non mancherà chi cercherà inediti o carte dimenticate in qualche cassetto. Azzardiamo: tra le tante “proposte” mancherà un testo che Pasolini aveva intenzione di leggere al congresso del Partito Radicale di Firenze dei primi giorni di novembre. Non ha potuto farlo, lo hanno ucciso quarantott’ore prima. Lo leggerà davanti a una platea sgomenta e affranta lo scrittore Vincenzo Cerami. È di fatto, il testamento politico di Pasolini. A un certo punto si legge:

“Avete ottenuto dei grandi successi. Ciò costituisce un grande pericolo… i diritti civili sono entrati a far parte non solo della coscienza, ma anche della dinamica di tutta la classe dirigente italiana di fede progressista. Non parlo dei vostri simpatizzanti. Non parlo di coloro che avete raggiunto nei luoghi più lontani e diversi. Parlo degli intellettuali socialisti, degli intellettuali comunisti, degli intellettuali cattolici di sinistra, degli intellettuali generici: in questa massa di intellettuali – attraverso i vostri successi – la vostra passione irregolare per la libertà, si è codificata, ha acquistato la certezza del conformismo, e addirittura (attraverso un “modello” imitato sempre dai giovani estremisti) del terrorismo e della demagogia”.

Questo pericolo incombe, ci minaccia; quell’allarme di cinquant’anni fa è attualissimo.

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