Un racconto di Lucrezia Bariselli

Gli anni perduti

Un racconto di Lucrezia Bariselli

La luce delle lampade a gas si stava affievolendo nel salotto. Isabelle, la padrona di casa, era seduta su una poltrona a leggere. Stava inserendo il segnalibro tra le pagine quando notò qualcosa a terra. Una carta da gioco, ma non faceva parte di nessuno dei mazzi che possedeva. Come poteva essere finita lì?

La voltò e la riconobbe: era una carta dei tarocchi. Quando era bambina sua madre, Edith, era profondamente affascinata dall’occulto. Spesso invitava medium e cartomanti durante le feste mentre Isabelle, nascosta dietro qualche mobile, passava il tempo a osservare tutto. Aveva sempre pensato a quelle serate come al periodo in cui il suo spirito scientifico si era imposto, quasi a contrastare le credenze materne.

Il telefono iniziò a squillare. Era un evento piuttosto insolito. Quell’aggeggio lo aveva fatto installare per interesse scientifico, erano in pochi ad averlo; non le venne in mente nessuno che potesse chiamarla a un’ora così tarda.

Ci mise un attimo per ricordarsi quale fosse la cornetta e quale il microfono. «Isabelle Martin, 32 Endell Street, chi parla?». Dall’altro capo del filo non sentì nessun rumore. La luce delle lampade si spense.

Quando riaprì gli occhi, si ritrovò in un posto completamente nuovo. Stesa, in un letto che non conosceva, una donna la stava osservando. «Finalmente sveglia! Chissà cosa sarebbe successo se non ti avessi trovata in tempo» disse.

Trovata? Non aveva bisogno di essere trovata, era a casa sua. «Dove sono?» chiese guardandosi intorno.

«A Londra, ovvio! Devi aver sbattuto la testa» rispose l’altra.

«Dove mi ha trovata?»

La donna sorrise e si passò le mani sul grembiule bianco. Fu in quell’istante che Isabelle lo notò: non era vestita come una donna di epoca edoardiana. Quelli erano abiti di almeno trecento anni prima!

«Eri sul palco del Globe, il teatro. Veramente non ricordi?»

Isabelle scosse la testa. Quel teatro era stato demolito, non poteva in alcun modo essere stata ritrovata lì.

«Come posso chiamarvi? Vorrei poter dare un nome alla donna che mi ha salvato la vita».

«Non farti troppi problemi. Io sono William Shakespeare, non ti ricordi di me?»

Isabelle non riuscì a trattenere una smorfia sul viso che la sua interlocutrice notò immediatamente.

«Cosa ti stupisce così tanto?» disse avvicinandosi al letto e ponendole una mano sulla fronte come a controllare la temperatura.

«Non può essere vero». Isabelle boccheggiò.

«Certo che è vero, Belle. Giocavamo sempre insieme quando lady Edith dava le sue feste».

Isabelle osservò il volto della donna. Gli occhi scuri, le mani sporche di inchiostro, i capelli ricci e ribelli che le ricadevano sulle spalle. Qualcosa scattò nella sua mente.

Un ricordo. L’ossessione di sua madre per William Shakespeare, le sedute spiritiche, poi una bambina che arrivava sempre in ritardo alle serate. Si ricordò che a spiare dalla serratura della porta, o da dietro un mobile, erano spesso in due. Aveva sepolto quei ricordi. Sua madre aveva definito quella bimba nulla più che un’amica immaginaria e le aveva detto di lasciare perdere quelle assurdità.

«Will, sei proprio tu?»