Ospedale perde pezzi: Riccardi: 'Per Utin tutto deciso'. Rischia pure la medicina d'urgenza
Quale Futuro per l’ospedale di Cremona? A chiederselo sono alcuni primari che vi lavorano o vi hanno lavorato fino a poco fa: Carlo Poggiani, Pietro Cavalli, Aldo Riccardi, Antonio Cuzzoli, Luigi Borghesi. Ma anche le mamme che da mesi si stanno impegnando per salvare la Terapia intensiva neonatale cremonese, il movimento delle Mamme ‘Uniti per l’Utin di Cremona’ di Chiara Barchiesi ed Elena Albera, che hanno promosso un incontro pubblico sabatao a Spazio Comune per parlare di quanto sta accadendo e di cosa rischia il nostro nosocomio. Una struttura che negli anni è stata depotenziata dalla politica.
A partire da una certezza: dal 1 marzo l’Unità di terapia intensiva neonatale di Cremona chiuderà i battenti. Una certezza confermata dal dottor Riccardi, che nei prossimi giorni sarà in Regione a una riunione per definire le procedure di trasferimento delle mamme al di sotto delle 32 settimane di gravidanza, che qui non potranno più essere curate. E questo depotenzia anche l’unità operativa di Ostetricia e Ginecologia. Ma i problemi del pronto soccorso che non sono da meno: sembra infatti che la medicina d’urgenza, fiore all’occhiello del reparto, verrà chiusa, come ha annunciato il primario, dottor Antonio Cuzzoli, che ha già dato le dimissioni. E ci sono i problemi del presidio Oglio Po, dove hanno chiuso il punto nascite. Senza contare i tempi di attesa biblici per una visita o per un esame diagnostico. Insomma, un quadro, quello tracciato dai medici, decisamente preoccupante e grave.
Il più drastico è senza dubbio Aldo Riccardi, ancora primario di Ostetricia e Ginecologia, che mette sul piatto una situazione veramente drammatica: “Ormai è tutto deciso: dal 1 marzo la tin non esisterà più. Giovedì dovrò andare in Regione, ma non per discutere ancora la vicenda. Dovrò confrontarmi per organizzare il trasferimento delle mamme sotto le 32 settimane. E tutto questo è drammatico”. Il problema di Cremona, oggi, è che “manca una rappresentanza politica in Regione” sottolinea. “Ci hanno colpiti proprio in questo momento, quando non abbiamo nessuno a rappresentarci. Ho vissuto una drammatica riunione contro l’impostazione della Regione, che è venuta a spiegarci perché voleva chiudere la tin. Io mi sono opposto a questa cosa, ma non ho avuto il sostegno di alcun collega se non il dottor Cuzzoli. Non c’è stata una presa di posizione forte tra noi medici. Non siamo stati in grado di esprimere una posizione”.
E le conseguenze, ha detto Riccardi, saranno pesanti anche per il resto dell’ospedale, a partire proprio dall’Ostetricia e Ginecologia. “”Dietro quanto sta accadendo c’è anche la fine dell’ostetricia di Cremona, perché chi ha problemi sotto le 32 settimane non potrà più essere curato qui ma dovrà andare a Brescia. E dall’altra parte c’è la Poliambulanza di Brescia, che nel 2012 ha creato una tin, in sfregio alle regole vigenti. E nessuno si oppose. Anzi venne riconosciuta come terapia intensiva neonatale supporto, dicitura che non esisteva neppure nella casistica. E ora dal 1 marzo ogni volta che trasferiremo una mamma a Brescia, se non ci sono posti al civile verrà mandata alla Poliambulanza. In tutto questo è la città di Cremona ad aver perso. Le cose ci sono piovute dall’altro, senza che ci siano state riunioni precedenti. Ho chiesto colloqui con l’assessore alla sanità ma non mi ha ricevuto. Ho un’equipe giovane, di gente motivata, entusiasta, e ora si trovano a vivere un momento in cui non sanno dove stanno andando. Col primo marzo tutto finisce e per noi questo è un fallimento, Tutto è già deciso, compreso come riorganizzare la terapia subintensiva neonatale, quello che rimane della Utin”.
“La terapia intensiva neonatale è fondamentale perché la nascita prematura è una delle principali cause di morte tra i neonati” ha sottolineato il dottor Poggiani, ex primario della pediatria. “I bambini sotto le 32 settimane sono circa il 16% dei pre-termine. E l’ospedale di Cremona rischia di perdere la possibilità di prendersi cura di questa fascia di bambini. Questo è un danno per l’ospedale ma anche per la città stessa. E’ vero che noi non abbiamo tantissimi casi e non abbiamo saturazione alta, solo il 52%. Ma ci sono reparti nella Città Metropolitana che hanno una saturazione del 30% e non vengono toccata. Il problema è che Cremona è una città piccola, che non ha mai alzato la voce. E ora perdere questo reparto significa perdere un pezzo di qualità dell’assistenza alle mamme e alle future mamme e anche di altri servizi. I numeri parlano chiaro: a Cremona la mortalità dei bambini di peso molto basso è all’11,1% contro la media italiana del 14,5%. Gli indicatori di morbilità dicono che abbiamo molti meno pneumotoraci rispetto agli altri, meno incidenza di emorragia intraventricolare severa, meno retinopatia del pretermine, meno patologia chirurgica, meno infezioni nosocomiali, e via di seguito. E’ su questi indici che dovrebbe essere fatta una selezione su chi deve rimanere aperto e chi no. Senza contare la questione territoriale: non siamo un paesino di campagna e abbiamo il nostro diritto di mantenere la tin. Negli ultimi tre anni abbiamo avuto una media di 24 bambini e secondo gli standard della regione ce ne vogliono 50. Ma il Niguarda nell’ultimo anno ne ha fatti 29: qual è la differenza?”.
Alle osservazioni di Poggiani si uniscono quelle del collega Pietro Cavalli, anche lui dimessosi dall’ospedale: “La questione della Tin è la punta dell’iceberg. Sotto ci sono una serie di numeri che dimostrano come stiamo perdendo un sacco di pazienti. Perdiamo la fiducia della popolazione. Ho visto la progressiva decadenza della struttura, per la somma di tutta una serie di gestioni non sempre condivisibili. Oggi l’ospedale ha le uscite di sicurezza bloccate, perché si tratta di uscite che possono essere pericolose. Però se c’è un incendio cosa si fa? Non è qualcosa che dipende dalla attuale amministrazione, sono problemi che si sono accumulati progressivamente, per anni. Noi vogliamo un ospedale che funzioni. A Cremona non vogliamo fare concorrenza alle grandi realtà. Anche perché negli anni quando ci abbiamo provato abbiamo naufragato miseramente. A noi interessa che quello che c’è funzioni. A partire dal Pronto soccorso che è il biglietto di ingresso all’ospedale”.
In effetti il pronto soccorso – 57mila accessi l’anno – non è da meno, dal punto di vista delle problematiche. “Il 30 giugno è il mio ultimo giorno di lavoro nella sanità pubblica” evidenzia il dottor Cuzzoli, direttore dell’unità operativa, che ha paventato il rischio di chiusura della medicina d’urgenza. “Sono orgoglioso di questa città ma non di questa sanità. Non sono orgoglioso di un pronto soccorso che fatica perché non ha più un ospedale sopra. Non sono orgoglioso di una struttura di pronto soccorso che ha bisogno di essere rinnovata e invece chiude la medicina d’urgenza. Ho presentato sette relazioni perché si modificasse qualcosa in ospedale. Ma non ci sono più i medici, il personale è ridottissimo. Come può un paziente aspettare sei ore perché un consulente vada a vederlo? Come può un medico in sette minuti fare la valutazione del paziente? Perché perdiamo improvvisamente centralità, dopo aver con grande fatica costruito dei poli di eccellenza?”.
Non secondari i problemi del presidio Oglio Po, come sottolinea il dottor Luigi Borghesi, ex primario di Anestesia e Rianimazione. “Oglio Po ha numerosi problemi. Intanto si parla di un ospedale periferico che però ha una enorme potenzialità dal punto di vista dell’elargizione di servizi sanitari, in un territorio vasto: esso nacque infatti per il comprensorio Viadana-Casalmaggiore-Bozzolo. Noi dobbiamo lavorare sulle difficoltà subentrate in questi anni. Come la perdita di primariati, i medici che se ne sono andati in pensione e non sono stati sostituiti, senza contare la chiusura del punto nascite. Si è lasciata ridimensionare una struttura ospedaliera che aveva potenzialità enorme. Il calo delle nascite è stato determinato dal fatto che sono andate via 5 ostetriche e non sono state sostituite”.
Un quadro pesante e drammatico, quello delineato dai medici, che si sono messi in gioco in prima persona, insieme alle mamme, che a dispetto di ogni decisione già presa continuano la propria battaglia a suon di fiocchi gialli, che verranno distribuiti in una serie di incontri e iniziative sul territorio, mentre la petizione lanciata su change.org per salvare la Utin ha già raggiunto le 15mila sottoscrizioni.
Laura Bosio